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                              Un prologo che è un nuovo capitolo...
 Scrive Fidel:
 “Camacho: lui era uguale a tanti altri giovani di 
                              qualsiasi parte del paese, già stanchi di 
                              sopportare povertà, disoccupazione, sfruttamento e 
                              ingiustizia, che contrastavano con la vita 
                              privilegiata di una minoranza associata ai 
                              proprietari stranieri. Chi non intendeva questo, 
                              non intendeva assolutamente niente”.
 
                              
                              E Fidel guidò la ribellione di quei giovani 
                              valorosi patrioti... 
                               Georgina 
                              Leyva è stata combattente dell’Esercito Ribelle, 
                              fondatrice del Fronte Guerrigliero Camagüey e del 
                              Partito Comunista di Cuba, ha ricevuto molte 
                              importanti decorazioni nazionali ed è stata membro 
                              del Comitato Centrale del PCC dal 1981 al 1986. Ha 
                              svolto incarichi come diplomatica ed ha 
                              partecipato a incontri internazionali e nazionali 
                              e attualmente è la principale consulente dell’ 
                              Ufficio per lo Sviluppo Integrale della Penisola 
                              di Guanahacabibes. • 
                              
                              Il Comandante Julio Camacho Aguilera   
                               Il 
                              compagno di Georgina Leyva, di tutta la vita, è il 
                              comandante  Julio Camacho Aguilera, combattente 
                              rivoluzionario e politico cubano che lottò contro 
                              la dittatura di Fulgencio Batista e fu a capo di 
                              un gruppo guerrigliero nelle montagne di 
                              Guantánamo, per poi passare alla clandestinità. 
                              
                              Fu uno dei dirigenti principali del fallito 
                              sollevamento del 5 Settembre. Entrò nell Esercito 
                              Ribelle. 
                              
                               Dopo la morte di Frank País in Santiago, René 
                              Ramos Latour che lo sostituva, firmò la sua nomina 
                              come Comandante delle Milizie del 26 di Luglio, 
                              nell’agosto del 1957, soggetta poi all’approvazione 
                              di Fidel. 
                              
                              Esteban Ventura Novo lo catturò il 18 novembre del 
                              1957 durante una riunione nel reparto avanero di 
                              Buenavista (a Playa), con i combattenti 
                              clandestini di Pinar del Río  Fu selvaggiamente 
                              torturato e perse la locomozione per un certo 
                              tempo.  
                              
                              Gli ruppero cinque costole, ma non gli strapparono 
                              nemmeno un nome. 
                              
                              Per  ingannare i boia menzionò solo nomi di morti, 
                              di disertori e di alcuni che erano già sulla 
                              Sierra Maestra.  
                              
                              Dopo il trionfo della Rivoluzione fu nominato 
                              Ministro Incaricato della Corporazione Nazionale 
                              del Trasporto e, tra gli altri incarichi, fu 
                              eletto membro del Comitato Centrale nel VI 
                              Congresso del Partito. 
                              
                              Oggi è direttore dell’Ufficio per lo Sviluppo 
                              Integrale della Penisola di Guanahacabibes. 
                               
                              
                               Il 
                              prologo di “La storia...” aiuta comprendere quella 
                              congiuntura storica 
                              
                              Il prologo di Fidel Castro arricchisce il libro di 
                              Georgina Leyva Pagán “Storia di una gesta 
                              liberatrice 1952-1958”, nella sua seconda edizione, 
                              un’opera che offre ai lettori dati e testimonianze 
                              sulle azioni dei combattenti del Movimento 
                              Rivoluzionario 26 di Luglio, che iniziarono la 
                              lotta ribelle a Guantanamo.  
                              
                              Un’importante lettera scritta a mano da Fidel e 
                              inviata  al comandante nemico Raul Corzo Izaguirre, 
                              il 10 settembre del 1958, riportata integralmente, 
                              aiuta a comprendere quella congiuntura storica che 
                              portò in tre mesi all’assoluta vittoria della 
                              Rivoluzione.        
                              
                              “All’alba del 26 di luglio del 1953, quando 
                              decidemmo di assaltare la fortezza della Moncada e 
                              la caserma  Carlos Manuel de Céspedes a Bayamo —16 
                              mesi dopo il colpo di Stato che portò Batista al 
                              potere per la seconda volta, il 10 marzo del 1952, 
                              prima di una delle votazioni per la presidenza in 
                              cui le sue possibilità di vittoria erano ridotte a 
                              zero - io non avevo la più assoluta notizia dell’esistenza 
                              di Camacho: lui era uguale a tanti altri giovani 
                              di qualsiasi parte del paese, già stanchi di 
                              sopportare povertà, disoccupazione, sfruttamento e 
                              ingiustizia, che contrastavano con la vita 
                              privilegiata di una minoranza associata ai 
                              proprietari stranieri. (...)  
                              
                              Camacho e Gina, forse sino al 26 di luglio del 
                              1953, non avevano mai nemmeno sentito parlare di 
                              me; uno studente che concludeva  suoi studi nella 
                              Facoltà di Diritto e otteneva anche la laurea in 
                              Scienze Politiche e Diplomatiche della nostra 
                              scuola. I miei voti erano stati soddisfacenti e io 
                              dovevo anche mantenermi.  
                              
                              Ma quando circolarono le notizie che si diffusero 
                              rapidamente su quel 26 di luglio del 1953, Camacho 
                              fece tutto il possibile per comunicare con me, 
                              offrendomi le sue conoscenze sulle lotte contadine 
                              nel  “Realengo 18”, sul quale Pablo de la 
                              Torriente Brau aveva scritto un brillante 
                              resoconto prima di andare in Spagna a combattere 
                              contro il colpo a tradimento di Francisco 
                              Franco...  
                              
                              Fidel Castro Ruz: Il prologo che mi hanno chiesto 
                              
                              Dal libro di Georgina Leyva Pagán: “Storia di una 
                              gesta liberatrice”. Fidel Castro Ruz
 
                               L’abitudine 
                              di adempiere gli impegni mi ha fatto ricordare che 
                              avevo promesso a Julio Camacho Aguilera, vecchio e 
                              sperimentato combattente, di scrivere un prologo 
                              al libro elaborato da sua moglie Georgina Leyva 
                              Pagán “La storia di una gesta liberatrice 1952 
                              -1958”, del quale è stata stampata una nuova 
                              edizione per la Fiera del Libro di febbraio 2014, 
                              in coincidenza con il 90ª anniversario della sua 
                              nascita, nel mese di marzo di qust’anno. 
                              
                              Gina è una donna coraggiosa e piena di dedizione.
                               
                              
                              La cosa peggiore è che non potevo dire che nel 55º 
                              anniversario del trionfo della Rivoluzione io 
                              sarei stato saturo di lavoro, perchè realmente sia 
                              Julio che Gina mi avevano chiesto  il prologo da 
                              molti mesi.  
                              
                              Quando ho detto loro che erano passati più di 60 
                              anni dal quel 26 di luglio del 1953, mi hanno 
                              inviato una copia stampata nel 2009, cioè 56 anni 
                              dopo,  
                              
                              Così non c’è stato altro da fare che raccontare 
                              quello che ricordo, con totale lealtà.  
                              
                              Nel libro si mostra che eravamo un popolo 
                              pacifico, che viveva in equilibrio con la natura, 
                              intercambiando armoniosamente con lei. Si superava 
                              appena il numero di centoventimila abitanti.
                               
                              
                              L’astuto navigante europeo che “ci ha scoperto” 
                              credeva realmente d’aver raggiunto  l’India. 
                              Nessuno sa quando prese coscienza del suo errore. 
                              Anche se aveva ragione  con la sua teoria sulla 
                              sfericità della Terra non è difficile provare, 
                              data la rotta che seguiva, che non sarebbe mai 
                              giunto in India, ma in Cina, dove già a quei tempi 
                              conoscevano la polvere, la bussola, i metalli duri, 
                              e disponevano di eserciti con migliaia di soldati 
                              di cavalleria, alimenti abbondanti, spezie e 
                              ricchezze che l’Europa ignorava.   
                              
                              Senza dubbio, Colombo e i suoi marinai avrebbero 
                              ricevuto un’accoglienza squisita in Cina. I loro 
                              velieri incrociavano il nord di Cuba, non lontano 
                              dall’attuale territorio yankee, quando gli 
                              indigeni parlarono di un’isola più grande situata 
                              a sud.  
                              
                              Girando verso sud-ovest, giunsero nella nostra 
                              isola, (Colombo)ne prende possesso e poco dopo 
                              afferma che “è la terra più bella che mai occhi 
                              umani videro”.  
                              
                              Ma che cos’ha a che vedere questo con  Camacho 
                              Aguilera, si domanderanno alcuni. Molto! 
                               
                              
                              La prima azione rivoluzionaria di  questi avviene 
                              a Guantánamo, dove gli yankee hanno una grande 
                              base navale, occupata con la forza, 
                              quattrocentodieci anni più tardi, una delle zone 
                              più importanti per lo sviluppo marittimo del 
                              nostro paese e che, nella tappa attuale 
                              costituisce un centro de tortura dove sono vessati 
                              cittadini di molte nazionalità del mondo. 
                               
                              
                              Va visto quello che pubblicano le agenzie 
                              d’informazione più lette del modo. In queste si 
                              possono apprezzare i gravissimi pericoli che 
                              minacciano la sopravvivenza del genere umano. Ci 
                              sono giorni che parlano appena di altri temi.
                               
                              
                              Quando nella mia modesta lotta, come quella di 
                              tanti altri giovani cubani, presi coscienza della 
                              necessità di un cambio radicale nel nostro paese, 
                              eravamo già 50 volte tante le persone che vivevano 
                              nella nostra Isola, parlavamo la stessa lingua ed 
                              eravamo capaci di provare sentimenti simili, anche 
                              se la maggioranza non sapeva nè leggere nè 
                              scrivere.  
                              
                              All’alba del 26 di luglio del 1953, quando 
                              decidemmo di assaltare la fortezza della Moncada e 
                              la caserma  Carlos Manuel de Céspedes a Bayamo —16 
                              mesi dopo il colpo di Stato che portò Batista al 
                              potere per la seconda volta, il 10 marzo del 1952, 
                              prima di una delle votazioni per la presidenza in 
                              cui le sue possibilità di vittoria erano ridotte a 
                              zero - io non avevo la più assoluta notizia dell’esistenza 
                              di Camacho: lui era uguale a tanti altri giovani 
                              di qualsiasi parte del paese, già stanchi di 
                              sopportare povertà, disoccupazione, sfruttamento e 
                              ingiustizia, che contrastavano con la vita 
                              privilegiata di una minoranza associata ai 
                              proprietari stranieri.  
                              
                               Chi 
                              non intendeva questo, non intendeva assolutamente 
                              niente. Io, per mio conto, avevo reclutato già più 
                              di un migliaio di giovani militanti del Partito 
                              Ortodosso, che odiavano gli abusi e gli orrori del 
                              regime militare di Batista, che dopo il Colpo dei 
                              Sergenti del 4 settembre del 1933 usurpò, come 
                              sergente stenografo dello Stato Maggiore la 
                              ribellione dei soldati che incolpavano gli 
                              ufficiali dei crimini del “machadado”. 
                              
                              Gerardo Machado, vecchio e quasi sconosciuto 
                              ufficiale dell’Esercito di Liberazione, si 
                              trasformò  in virtù dei maneggi interventisti e 
                              dei costumi degli yankee, nel presidente del paese, 
                              dove impose un regime sanguinario.  
                              
                              Camacho e Gina, forse sino al 26 di luglio del 
                              1953, non avevano mai nemmeno sentito parlare di 
                              me; uno studente che concludeva  suoi studi nella 
                              Facoltà di Diritto e otteneva anche la laurea in 
                              Scienze Politiche e Diplomatiche della nostra 
                              scuola.  
                              
                              I miei voti erano stati soddisfacenti e io dovevo 
                              anche mantenermi. Ma quando circolarono le notizie 
                              che si diffusero rapidamente su quel 26 di luglio 
                              del 1953, Camacho fece tutto il possibile per 
                              comunicare con me, offrendomi le sue conoscenze 
                              sulle lotte contadine nel  “Realengo 18”, sul 
                              quale Pablo de la Torriente Brau aveva scritto un 
                              brillante resoconto prima di andare in Spagna a 
                              combattere contro il colpo a tradimento di 
                              Francisco Franco, il più fedele servitore della 
                              Germania nazista quando scoppiò la guerra genocida 
                              e criminale contro la URSS, il primo stato 
                              multinazionale e socialista del mondo. 
                              
                              Pablo de la Torriente Brau morì in una trincea di 
                              prima linea in difesa di uno dei fronti della 
                              Repubblica Spagnola, dove più di mille compatrioti 
                              cubani, si afferma, parteciparono a quella guerra.
                               
                              
                              Io avevo letto vari dei suoi scritti che aiutarono 
                              a forgiare una coscienza politica. 
                              
                              Quanto mi sarebbe stato utile parlare con un uomo 
                              come Pablo de la Torriente, dal cui libro sulle 
                              lotte nel “Realengo 18”, ubicato nella regione di 
                              Guantánamo, estrassi conoscenze tanto utili! 
                              
                              Nessuno crederebbe che Camacho divenne un problema 
                              addizionale. Lo si creda o no, è una storia lunga 
                              e forse senza questa, quello che scrivo perderebbe 
                              il senso.  
                              
                              Quando il Granma giunse a Cuba con 82 uomini a 
                              bordo, dove potevano viaggiare con una certa 
                              comodità 12 viaggiatori, aveva due giorni di 
                              ritardo sul previsto per via dei  “fronti freddi 
                              del nord” tempestosi dell’epoca e, a 10 – 12 
                              miglia dalla costa, per via dei cannoni della 
                              tirannia.  
                              
                              Un combattente nostro era caduto in acqua mentre 
                              era di guardia. Nessuno sa se per caso o per 
                              stanchezza, e ci costò più di due ore il suo 
                              salvataggio. Questi era tra quelli che si 
                              occupavano della rotta dell’imbarcazione. 
                               
                              
                              Il navigatore principale era uno degli ufficiali 
                              di marina con il grado di Comandante, mandato via 
                              da Batista, che si era offerto di accompagnarci 
                              con molto piacere.   
                              
                              Il problema è che in quel momento critico dello 
                              sbarco si dimenticò dei fari che indicavano la 
                              rotta esatta dell’entrata in quella zona piena di 
                              rischi, nelle prossimità del faro situato nell’estremo 
                              a sud-ovest della vecchia provincia d’Oriente. 
                              
                              Il Granma aveva già fatto tre giri e l’ex militare 
                              stava iniziandone un quarto mentre albeggiava e 
                              cominciava a sorgere il sole. 
                              
                              Gli dissi con evidente irritazione: “Tu sei sicuro 
                              che questa è la costa di Cuba?”, ma per 
                              infastidire, perchè era evidente che era il nostro 
                              paese.  
                              
                              “Infilati a tutta velocità verso quel punto sino a 
                              penetrare con la prua sulla riva”.  
                              
                              Fatto questo, un vecchio compagno, René Rodríguez 
                              Cruz, piccolo e magro e senza incarichi di sorta, 
                              scese a prua.  Dietro a lui, fiducioso, scendo io 
                              con il fucile in mano, il cinturone piena alla 
                              cintura e uno zaino sulla schiena che pesava 30 
                              chili e includeva una pistola mitragliatrice con 
                              molte pallottole ed altre cose essenziali, ma 
                              mentre io mi muovevo, le gambe mi affondavano, 
                              sino a che fui sul punto d’affogare. Riuscii ad 
                              uscire aiutato da altri compagni, con il cinturone, 
                              la borraccia, la dotazione corrispondente e 
                              cominciai a camminare.  
                              
                              Raúl rimase sulla nave sino a quando scese 
                              l’ultima arma che portavamo come scorta, e quindi 
                              cominciammo immediatamente a marciare. Tardammo 
                              due ore a superare quel pantano. L’incredibile è 
                              che stavamo a pochi metri da un molo perfettamente 
                              visibile, se l’imbarcazione avesse seguito il 
                              percorso corretto.  
                              
                              Un altro serio inconveniente fu che quando era 
                              avvenuto il sollevamento di Santiago, due giorni 
                              prima, i compagni di quell’eroica città non 
                              avevano rispettato lo stretto ordine di accertarsi 
                              del nostro arrivo sulla costa, prima di convocare 
                              il sollevamento, com’era stato accordato e 
                              ribadito ad una sola persona.  
                               
                              
                              Batista, che aveva le sue forze principali di 
                              aria, mare e terra a L’Avana, dispose così di 48 
                              ore di tempo per trasferire le sue truppe migliori 
                              alla provincia d’Oriente e la sua aviazione da 
                              combattimento all’aeroporto di Camagüey, da dove 
                              in 20 minuti giungeva nel territorio delle 
                              operazioni. 
                              
                              Esplorammo la zona più vicina al luogo in cui 
                              eravamo arrivati e non si erano ancora riuniti 
                              tutti i compagni della spedizione che già gli 
                              aerei nemici volavano radenti alla nostra ricerca. 
                              Il giorno dopo, mentre marciavamo verso est, 
                              osservai bene l’area che era piana per una decina 
                              di chilometri, di proprietà di importati 
                              proprietari di  zuccherifici dell’alta borghesia, 
                              con le canne a diversi stadi di maturazione, che 
                              aspettavano la prossima produzione, che doveva 
                              cominciare in febbraio.  
                              
                              La zona coltivabile era limitata da un’ampia 
                              striscia di terra rocciosa coperta da un bosco 
                              fitto, dove non si poteva seminare alcun tipo di 
                              alimento,  
                              
                              Precedentemente i nostri uomini si erano riuniti e 
                              contavamo su più di 50 fucili con un mirino 
                              telescopico preciso.  
                              
                              Le truppe scelte inviate direttamente nella 
                              regione dello sbarco, come prima cosa occuparono 
                              la linea Niquero-Pilón con vari battaglioni, per 
                              impedire il nostro accesso alla zona occidentale 
                              della Sierra Maestra, lungo la costa sud della 
                              provincia d’Oriente.  Nonostante questo, la 
                              caserma di Niquero era di legno e non avrebbe 
                              resistito all’attacco di 82 tiratori, se fossimo 
                              sbarcati al molo che ho citato.  
                              
                              Ritardammo tre giorni per giungere ad  Alegría de 
                              Pío, dopo che ci eravamo raggruppati. Dopo il 
                              rigore delle marce in terreni pantanosi, dopo un 
                              lungo viaggio, la forte tensione, gli alimenti 
                              scarsi, evitando gli spazi in cui l’aviazione 
                              avrebbe potuto scoprirci ed attaccarci,  giungemmo 
                              ad un punto in cui sistemai gli 82 combattenti. 
                              Alcuni compagni erano così provati che immaginai 
                              che non potevano riposare su quel terreno roccioso, 
                              e decidemmo di ubicare la truppa in un piccolo 
                              bosco a 100 metri circa, prima di giungere a quel 
                              punto.  
                              
                              Se fossimo restati nel luogo scelto la notte 
                              precedente, avremmo preso a fucilate l’unità 
                              militare che ci seguiva, ma era notte e il nemico 
                              non si muoveva in quelle ore, per cui diedi le 
                              istruzioni di far accampare il distaccamento a 
                              pochi metri da quel luogo, nel piccolo bosco di 
                              terra coltivabile, circondato dalle canne da 
                              zucchero.  
                              
                              Il giorno dopo non fu ispezionata la corretta 
                              ubicazione della nostra forza e la retroguardia  
                              non si trovava alla distanza corretta dal resto 
                              del personale, che continuava a riposare.   
                               
                              
                              I nostri uomini cominciavano a sottovalutare un 
                              avversario troppo cauto. Molti dormivano 
                              placidamente. Mancavano a tutti le conoscenze più 
                              elementari di un sergente di plotone. 
                               Poco 
                              prima di mezzogiorno cominciò il gioco aereo del 
                              comando nemico. 
                              
                              Alcuni aerei da combattimento ci passarono sopra a 
                              500 metri circa, ma senza sparare. Mentre giungeva 
                              la sera, cominciarono a volare più bassi e 
                              aumentava il numero dei voli. Era già questione 
                              d’aspettare ancora un’ora per  dirigerci verso il 
                              bosco roccioso.  
                              
                              Non avevamo armi antiaree e in quelle circostanze 
                              era più corretto introdurci nel bosco prima che il 
                              nemico cominciasse l’attacco. Ma già non c’era 
                              tempo e il nemico attaccò per aria e per terra, 
                              così rapidamente che quelli che ci seguivano si 
                              scontrarono con la nostra retroguardia, provocando 
                              una grande dispersione.  
                              
                              Io, che ero disteso con il fucile in mano e con il 
                              cinturone con tutte le pallottole, mi muovo di 15 
                              metri circa quando inizia il mitragliamento per 
                              aria e per terra, e vado verso il campo di canne a 
                              sinistra della direzione presa; mi fermo puntando 
                              davanti a me, ma nessun soldato nemico giunge da 
                              quella direzione. Alcuni compagni passavano 
                              rapidamente al mio fianco senza fermarsi. Ne 
                              riconosco uno che portava un fucile e diverse 
                              pallottole nelle tasche e che si ferma lì con me.
                               
                              
                              Poco dopo arriva Faustino Pérez, che non ha armi, 
                              ma porta notizie sul Che, che aveva assistito come 
                              medico un compagno ferito a morte e che poi si era 
                              riunito con Almeida.  
                              
                              La dispersione era totale.     
                              
                              Quando non spararono più dal campo di canne, ci 
                              spostammo al bosco che era, come ho detto, a 100 
                              metri circa. Avevo visto sparire improvvisamente 
                              il lavoro di anni,  
                              
                              Restava con me un uomo con un fucile, senza 
                              cinturone e con varie pallottole.  
                              
                              Avevo la speranza di esplorare il bosco dove 
                              supponevo che avrei potuto incontrare un numero di 
                              compagni ben armati e di buona tempra, disposti a 
                              continuare la lotta. Non dissi una parola e mi 
                              misi a dormire nella paglia delle canne. Ma ben 
                              presto feci un’amarissima esperienza.  
                              
                              Spiego a Faustino, che era capitano come al capo 
                              di un’organizzazione alleata, l’idea di esplorare 
                              il bosco, io e lui, che non aveva nemmeno il 
                              fucile, e lui mi risponde tranquillamente: “No! Io 
                              penso che dobbiamo continuare  da questa parte 
                              dove ci sono le canne”. In quell’istante io mi 
                              indignai tanto profondamente che quasi non potevo 
                              emettere una parola.  Lui proveniva dal  Movimento 
                              Nazionale Rivoluzionario del professor Bárcenas. 
                              Percepii quasi istintivamente l’enorme forza dello 
                              “spirito piccolo borghese”,  che in generale era 
                              allergico al marxismo, al leninismo e al 
                              socialismo.  
                              
                              Anche se non lo dicevano a voce alta, le loro 
                              azioni precedenti e successive lo dimostrarono a 
                              tono con la mentalità che gli yankee avevano 
                              diffuso per il mondo, dopo il trionfo della 
                              Rivoluzione d’Ottobre in Russia, che comunque non 
                              impediva alla piccola borghesia d’opporsi al 
                              brutale colpo di Stato, che era condannato dal 
                              popolo. 
                              
                              Mi spiace dirlo, perchè Faustino era un uomo 
                              coraggioso che era felice combattendo nella 
                              clandestinità. Quanto ho imparato inghiottendo 
                              d’un colpo quella realtà! 
                              
                              Quando si creò il movimento di Pace Estenssoro in 
                              Bolivia, dopo la sconfitta dell’esercito boliviano 
                              provocata dai minatori con esplosivi, e noi 
                              eravamo reclusi per i fatti della Moncada, 
                              Faustino era diventato un “barcenista”, parola 
                              derivata dal cognome di un professore dell’Università, 
                              persona realmente sana, che aveva informato il 
                              professor Agramonte, candidato sostituto di 
                              Eduardo Chibás nelle elezioni presidenziali del 
                              1942, che Batista realmente non stava cospirando, 
                              perchè tutto marciava bene tra i sergenti secondo 
                              le sue notizie, ma disgraziatamente non aveva 
                              considerato che quella volta la cospirazione era 
                              con i capitani e non con i sergenti. 
                              
                              Scrivere la verità sarà sempre un amaro compito.
                               
                              
                              In quello stesso giorno, poche ore dopo l’azione 
                              nemica in Alegria de Pío, pieno d’indignazione, 
                              feci quello che non dovevo, mentre gli aerei 
                              bombardavano e mitragliavano il bosco, le cui 
                              rocce a volte tagliavano da sole le scarpe dei 
                              camminanti come coltelli affilati. Dopo una 
                              camminata di forse un’ora e mezza, percepimmo un 
                              aereo civile per venti o trenta passeggeri che 
                              girava attorno a noi che marciavamo a 600 metri 
                              dall’apparecchio, tra le canne seminate di recente.
                               
                              
                              Anni dopo, io che mi ricordavo l’amara esperienza, 
                              decisi d’osservare da un aereo come quello e a 
                              quella distanza: credetemi se affermo che si 
                              vedevano anche le galline e i pulcini nelle 
                              vicinanze delle case più vicine.  
                              
                              Quella volta, 15 o 20 minuti dopo ci avvicinammo 
                              ad un punto situato a circa 25 metri, ma in quel 
                              caso era un campo di canne alte almeno tre metri e 
                              vigorose, tra due isolotti di marabù, una pianta 
                              leguminosa spinosa e dura, difficile da sradicare.
                               
                              
                              Stavolta un piccolo aereo d’esplorazione girava 
                              attorno a noi e in pochi secondi apparvero diversi 
                              aerei da combattimento di fattura yankee, con 
                              quattro mitragliatrici calibro 50 in ogni ala. Tre 
                              volte la squadriglia passò sopra di noi quando, 
                              dopo aver superato il marabù, eravamo a pochi 
                              metri dalle canne.  
                              
                              In ogni occasione io chiamavo gli altri due 
                              compagni per sapere se erano vivi o morti. Dopo il 
                              bombardamento, un aereo leggero girava 
                              costantemente attorno alle canne dove eravamo 
                              nascosti, a pochi metri dalla riva  impedendoci di 
                              muoverci. Un sonno terribile mi invase in pochi 
                              minuti e fu allora che mi collocai la punta della 
                              canna del fucile sotto il mento e mi addormentai 
                              profondamente. Non potevo dimenticare che dopo la 
                              Moncada la pattuglia di Sarria mi aveva svegliato 
                              con la punta dei loro fucili. Avrei dovuto 
                              sopportare due volte la stessa scena? Avevo già 
                              conosciuto quell’esperienza, quando avevo 
                              solamente 26 anni. 
                              
                              Comunque a quest’ora non mi spiego ancora perchè 
                              lasciarono quel piccolo aereo a vigilarci e perchè 
                              i loro soldati assetati di sangue non registrarono 
                              il luogo, nonostante le numerose forze di cui 
                              disponevano.  
                              
                              Quando penetrò nel bosco roccioso, Raúl, che era 
                              anche capitano, incontrò non pochi  compagni 
                              ribelli armati, tra i quali reclutò cinque altri 
                              combattenti, aumentando a 7 le armi, con le 2 che 
                              avevo io, il giorno che ci incontrammo a Cinque 
                              Palmas.  
                              
                              Tra gli altri della spedizione del Granma c’erano 
                              eccellenti combattenti, ma non erano riusciti a 
                              convincere altri contadini di pensiero pacifico, 
                              che per questioni di coscienza non potevano 
                              accompagnare combattenti armati, e in quei casi 
                              avevano preso la decisione di nascondere i fucili, 
                              per ricercarli dopo. In quelle circostanze 
                              giunsero senza armi dove stavo io; il nemico se ne 
                              era impadronito.  
                              
                              L’avversario, dando per liquidata la nostra forza, 
                              si dedicò alla ricerca dei nostri resti in ogni  
                              punto della zona di combattimento.  
                              
                              Sierra Maestra è il nome dell’area occidentale di 
                              quella lunga cordigliera che si estende a sud dell’allora 
                              provincia d’Oriente, con alture di circa mille 
                              metri, elevazioni di quasi millecinquecento e il 
                              Pico Turquino, di circa millenovecento metri. 
                              Diverse tra queste cime divennero scenari di 
                              imboscate e duri combattimenti tra le truppe della 
                              tirannia e i giovani patrioti.   
                              
                              Ma non era una questione di armi e risorse: era 
                              una battaglia di idee. 
                              
                              In quel pericoloso processo, un pomeriggio in cui 
                              il Che sofferse un forte attacco di asma, che ci 
                              obbligò a nasconderlo con la maggiore sicurezza 
                              possibile e a proseguire la marcia, arrivammo a un 
                              punto, circa a mezzogiorno, dov’era abituale 
                              ascoltare le notizie con una radio a batterie che 
                              utilizzavano comunemente i contadini.  
                              
                              Quel giorno il generale Tabernilla, vecchio 
                              complice di Batista e Capo del suo Esercito, parlò 
                              per radio dopo la visita di Matthews, un brillante 
                              e capace giornalista del New York Times, che aveva 
                              fatto il reporter dalla Spagna con le notizie 
                              sulla guerra civile.  
                              
                              Il grottesco messaggio del criminale capo dell’esercito 
                              di Batista affermava: “Ne restano dodici e non 
                              hanno  altra alternativa che arrendersi o scappare, 
                              se ci riescono... si deve battere il ferro fino 
                              quando è caldo”! Si era affezionato a questa 
                              frase. 
                              
                              In quel momento guardai i miei compagni, ed 
                              eravamo 12 della spedizione del Granma, nè uno di 
                              più, nè uno di meno.  Il cinico generale, che 
                              nonostante il suo grado non visitò mai le sue 
                              truppe sulla Sierra Maestra aveva detto azzardando 
                              la cifra esatta.   
                              
                              In quel momento esclamai con forza: “Non 
                              cercheremo mai di scappare e nessuno si arrenderà, 
                              mai!  
                              
                              Nel gruppo c’erano Raúl e Camilo.  
                              
                              Si comprenderà che non possiamo dimenticare che fu 
                              un privilegio e non un merito aver vissuto quell’esperienza 
                              e che penetrarla costituiva un arduo impegno.
                               
                              
                              Tutti abbiamo sempre una sete insaziabile di 
                              comprendere il senso della vita e di come saranno 
                              i tempi a venire. 
                              
                              Gina, nel suo libro, mi ha aiutato a ricordare e a 
                              comprendere con più precisione il pensiero che mi 
                              stimolava in quegli anni intensi che ho vissuto, 
                              anche se sono cosciente che più un prologo, sto 
                              scrivendo un capitolo de  “La storia di una gesta 
                              liberatrice,1952-1958”. 
                              
                              Quella dura guerra durò due anni e 29 giorni.
                               
                              
                              Fu la nostra scuola di base. L’esperienza, 
                              l’azzardo e l’intensità dei nostri sentimenti ci 
                              condussero al trionfo.  
                              
                              Quella guerra fu la scuola in cui imparammo a 
                              combattere con efficienza. 
                              
                              Nell’ultima Offensiva Strategica le nostre forze 
                              non sommavano ancora 300 uomini con fucili da 
                              guerra, contro i quali la tirannia aveva lanciato 
                              14 battaglioni di fanteria di terra, veicoli 
                              blindati, obici, mortai da 82 millimetri, bazooka, 
                              numerosi aerei, caccia e bombardieri B-26. 
                              
                              Le truppe nemiche soffersero più di mille perdite, 
                              tra morti,  feriti e prigionieri. 
                              
                              Le nostre truppe s’incrementarono sino a contare 
                              più di mille combattenti armati, solo nel Fronte 
                              Numero 1 della Sierra Maestra. Sono passati più di 
                              56 anni dai primi combattimenti. Uno a uno avevo 
                              conosciuto i nomi dei compagni che dalla Moncada e 
                              dal Granma erano morti, e di molti altri che 
                              sopravvissero.   
                              
                              Il comandante Raúl Corzo Izaguirre era uno dei 
                              cinque capi che, con la direzione del generale 
                              Eulogio Cantillo, diresse l’ultima offensiva 
                              sferrata dall’esercito di Batista contro le forze 
                              ribelli che difendevano la zona occidentale della 
                              Sierra Maestra e la stazione radio del comando 
                              rivoluzionario, che non alterò mai un solo dato, 
                              perchè era il veicolo d’informazione di tutto il 
                              paese, norma applicata dalla totalità delle 
                              emittenti delle nostre colonne senza eccezione 
                              alcuna.  
                              
                              Alcuni importante capi delle truppe avversarie 
                              avevano sofferto elevate perdite in dipendenza 
                              delle missioni assegnate loro.   
                              
                              Il più importante tra loro era Sánchez Mosquera, 
                              che comandava i paracadutisti, inizialmente con il 
                              grado di Primo Tenente.  In quell’occasione 
                              l’esperto ufficiale – dopo la nostra prima 
                              battaglia vittoriosa a la Plata -, precedeva un 
                              centinaio di soldati di un battaglione, con la 
                              missione di scontrarsi per primi contro di noi. 
                              Per quella ragione diversi dei suoi paracadutisti 
                              morirono per gli spari precisi dei nostri tiratori, 
                              e incrementammo cosi le nostre armi da guerra.
                               
                              
                              La mia lettera, indirizzata a Corzo (comandante 
                              Raúl Corzo Izaguirre) il 10 settembre del 1958, 
                              scritta a mano ma intelligibile, è stata già 
                              pubblicata nel libro di Gina. 
                              
                               Non mi resta altra alternativa che includerla  
                              testualmente se realmente può aiutare a 
                              comprendere quella congiuntura storica: 
                              
                              10 Settembre del 1958, Sierra Maestra. 
                              
                              Stimato signore: 
                              
                              Sono stato informato dettagliatamente su ognuna 
                              delle sue parole. Credo di poter ricavare un 
                              giudizio abbastanza esatto del suo pensiero.
                               
                              
                              Mi piace la sua franchezza. 
                              
                              Parla soprattutto con autostima, e non si è  
                              lasciato intontire dalla propaganda interessata  a 
                              trasformare in uno strumento facile qualsiasi uomo 
                              vanitoso e senza carattere.  Volevano sostituirla 
                              con il primo del suo corso, che ha, Lei lo sa bene, 
                              ottenuto la sua fama con molta ignominia e l’ha 
                              persa senza molto valore.  
                              
                              Quello che Lei dice del vero eroe è nobile e 
                              giusto da parte sua. Chi lo può sapere meglio di 
                              Lei o di noi?   
                              
                              Anch’io lo apprezzo molto sinceramente, per la 
                              dignità con cui ha combattuto e l’affetto che ha 
                              saputo conquistare tra i suoi uomini, e questo 
                              dice molto di un ufficiale, anche se la fortuna 
                              gli è stata avversa, e forse per questo, a maggior 
                              ragione, obbliga la nostra cavalleria.  
                              
                              Che dolore pensare nelle intenzioni di Capi tanto 
                              ignobili e molto meno considerati con il  compagno 
                              che hanno sacrificato vergognosamente che con i 
                              propri avversari!   
                              
                              Se Lei si fosse visto in una situazione simile, 
                              avrebbe trasformato in infamia gli ipocriti onori 
                              che gli hanno reso.  
                              
                              Lo abbiamo fatto prigioniero pensando precisamente 
                              che ne volevano fare la vittima di qualche 
                              canagliata. Già furono aabbastanza gli errori e le 
                              incapacità del comando.  
                              
                              Un giorno si scriverà la verità su tutto questo.
                               
                              
                              Quello che è successo a Lei, inoltre, ha aiutato a 
                              farli preoccupare di più per Lei. Anche lui ha un 
                              alto concetto di Lei, che mi ha espresso in varie 
                              occasioni.        
                              
                              Anche se quello che Lei ha proposto come una buona 
                              soluzione (quella del Signor  C. M. S.) è una cosa 
                              inaccettabile in assoluto per noi, mi rivela che 
                              Lei agisce con sincerità e non la muovono 
                              ambizioni che potrebbero stare alla portata delle 
                              sue mani, ed è vero quello che Lei afferma, 
                              d’essere l’unico che conta qualcosa in questo 
                              istante.  
                               
                              
                              La maggior parte dei suoi compagni che ostentano 
                              il comando sono stati tanto indolenti che non si 
                              sono nemmeno preoccupati dell’ affetto dei loro 
                              soldati, e sembra vero che Lei è molto più deciso. 
                               
                              
                              Questo, a parte il fatto che è un apprezzamento 
                              personale,  è quello che dicono di Lei  quelli che 
                              la conoscono e che aggiungono anche che Lei è un 
                              uomo testardo. Cosa che può essere una virtù in 
                              determinate circostanze.  
                              
                              La mia poca fede nella maggior parte dei militari 
                              cubani si basa sull’indecisione che li 
                              caratterizza e sulla forma ingloriosa con cui si 
                              allontanano dall’ufficialità. 
                              
                              Devo fare un’eccezione molto giusta con il 
                              Capitano Ch. Anche se è stato troppo sprovveduto. 
                              Poi hanno cercato di coprire il suo nome d’infamia 
                              con la tattica ripugnate e odiosa di quelli che 
                              non rispettano alcun sentimento.  
                              
                              Il ruolo dell’ufficialità dell’Esercito non poteva 
                              essere più triste.  
                              
                              Non mi riferisco alle scampanate che rintoccano 
                              solo come conseguenze logiche per difendere tanta 
                              funesta e impopolare causa.  
                              
                              Nessun esercito con tradizioni, maturità e 
                              coscienza del suo destino si sarebbe fatto 
                              trascinare in una situazione simile, mantenendo 
                              l’ascendente sulla truppa e il discredito nei 
                              quadri degli ufficiali che si sanno senza 
                              influenza con i soldati. Una Dittatura si poteva 
                              mantenere infinitamente, sino a che non si fosse 
                              vista nella necessità di sferrare una guerra: 
                              perchè per sferrare una guerra ci vuole più di uno 
                              strumento d’oppressione. L’ufficialità non si è 
                              preoccupata di arrestare questa politica, mentre 
                              con assenza totale di spirito di corpo, vedeva 
                              cadere uno dopo l’altro i suoi migliori valori.    
                               
                              
                              Lei in un certo senso ci può ringraziare per 
                              l’opportunità d’avere fatto qualcosa in questo 
                              senso, perchè è la guerra, condividendo rischi, 
                              privazioni e sforzi, l’ambiente idoneo per quello. 
                              Lei è stato più intuitivo di altri  
                              
                              Scrivendole queste righe, nè con molta, nè con 
                              poca speranza che saranno utili in qualche modo, 
                              desidero puntualizzare alcune idee e concetti.
                               
                              
                              Noi siamo convinti d’avere la ragione in questa 
                              guerra.  
                              
                              Personalmente non lotto per nessuna aspirazione. 
                              Questo è quasi ovvio dirlo.   
                              
                              Inoltre ho una pessima opinione degli uomini 
                              vanitosi e penso come Martí che “tutta la gloria 
                              del mondo entra in un chicco di mais”.  
                              
                              Ho vissuto in questa lotta momenti molto difficili 
                              senza perdere la fede, e momenti di trionfo senza 
                              perdere la testa, da quando ci vedemmo solamente 
                              in dodici pronti alla lotta, e potevamo resistere 
                              solamente  ad un plotone e sino a quando siamo 
                              stati sufficienti per respingere uno dopo l’altro 
                              i migliori battaglioni dell’esercito. 
                              
                              In ogni tappa di questa lotta ho cercato d’avere 
                              un’idea molto precisa della nostra situazione e 
                              della situazione degli interessi che combattiamo.
                               
                              
                              Soluzioni che per noi potevano essere un trionfo 
                              un anno fa o più, oggi non possono soddisfare 
                              nessuno perchè gli uomini non muoiono invano.
                               
                               Siamo 
                              giunti alla guerra perchè furono negate alla 
                              nazione una parte del sue esigenze, ed oggi non si 
                              può giungere alla pace se non si accede a tutte. 
                              
                              Non hanno voluto lasciarci in pace quando la sorte 
                              ci era contraria.   
                              
                              Tabernilla ha detto: “ Sono restati in dodici e 
                              non gli resta altra alternativa che arrendersi o 
                              scappare, se ci riescono...”.  
                              
                              Non si può aspettare da noi la minor disposizione 
                              a lasciare loro in pace quando tutte le 
                              circostanze ci sono favorevoli. 
                              
                              Quando lo sciopero è fallito non si è pensato di 
                              offrire al paese una pace onorevole, ma sono state 
                              lanciate contro di noi tutte le forze per 
                              sterminarci. L’offensiva è terminata in un 
                              disastro e quelli che propugnavano quella brutta e 
                              implacabile politica, si devono preparare a 
                              raccogliere i suoi amari frutti.  
                              
                              Perchè dovremmo dare la minima considerazione al 
                              Regime che l’ha propiziata, e ai capi militari che 
                              l’hanno sostenuta? Lei crede che si può ridare la 
                              vita a centinaia di contadini assassinati senza 
                              ragione, rettifica o scuse possibili?  
                              
                              La Rivoluzione, che è un proposito rinnovatore, 
                              un’aspirazione di giustizia nei popoli, poteva 
                              essere schiacciata due anni fa, se ci fossero 
                              stati un poco di previsione, d’intelligenza e di 
                              senso storico in Batista.   
                              Continua
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