Un prologo che è un nuovo capitolo...
Scrive Fidel:
“Camacho: lui era uguale a tanti altri giovani di
qualsiasi parte del paese, già stanchi di
sopportare povertà, disoccupazione, sfruttamento e
ingiustizia, che contrastavano con la vita
privilegiata di una minoranza associata ai
proprietari stranieri. Chi non intendeva questo,
non intendeva assolutamente niente”.
E Fidel guidò la ribellione di quei giovani
valorosi patrioti...
Georgina
Leyva è stata combattente dell’Esercito Ribelle,
fondatrice del Fronte Guerrigliero Camagüey e del
Partito Comunista di Cuba, ha ricevuto molte
importanti decorazioni nazionali ed è stata membro
del Comitato Centrale del PCC dal 1981 al 1986. Ha
svolto incarichi come diplomatica ed ha
partecipato a incontri internazionali e nazionali
e attualmente è la principale consulente dell’
Ufficio per lo Sviluppo Integrale della Penisola
di Guanahacabibes. •
Il Comandante Julio Camacho Aguilera
Il
compagno di Georgina Leyva, di tutta la vita, è il
comandante Julio Camacho Aguilera, combattente
rivoluzionario e politico cubano che lottò contro
la dittatura di Fulgencio Batista e fu a capo di
un gruppo guerrigliero nelle montagne di
Guantánamo, per poi passare alla clandestinità.
Fu uno dei dirigenti principali del fallito
sollevamento del 5 Settembre. Entrò nell Esercito
Ribelle.
Dopo la morte di Frank País in Santiago, René
Ramos Latour che lo sostituva, firmò la sua nomina
come Comandante delle Milizie del 26 di Luglio,
nell’agosto del 1957, soggetta poi all’approvazione
di Fidel.
Esteban Ventura Novo lo catturò il 18 novembre del
1957 durante una riunione nel reparto avanero di
Buenavista (a Playa), con i combattenti
clandestini di Pinar del Río Fu selvaggiamente
torturato e perse la locomozione per un certo
tempo.
Gli ruppero cinque costole, ma non gli strapparono
nemmeno un nome.
Per ingannare i boia menzionò solo nomi di morti,
di disertori e di alcuni che erano già sulla
Sierra Maestra.
Dopo il trionfo della Rivoluzione fu nominato
Ministro Incaricato della Corporazione Nazionale
del Trasporto e, tra gli altri incarichi, fu
eletto membro del Comitato Centrale nel VI
Congresso del Partito.
Oggi è direttore dell’Ufficio per lo Sviluppo
Integrale della Penisola di Guanahacabibes.
Il
prologo di “La storia...” aiuta comprendere quella
congiuntura storica
Il prologo di Fidel Castro arricchisce il libro di
Georgina Leyva Pagán “Storia di una gesta
liberatrice 1952-1958”, nella sua seconda edizione,
un’opera che offre ai lettori dati e testimonianze
sulle azioni dei combattenti del Movimento
Rivoluzionario 26 di Luglio, che iniziarono la
lotta ribelle a Guantanamo.
Un’importante lettera scritta a mano da Fidel e
inviata al comandante nemico Raul Corzo Izaguirre,
il 10 settembre del 1958, riportata integralmente,
aiuta a comprendere quella congiuntura storica che
portò in tre mesi all’assoluta vittoria della
Rivoluzione.
“All’alba del 26 di luglio del 1953, quando
decidemmo di assaltare la fortezza della Moncada e
la caserma Carlos Manuel de Céspedes a Bayamo —16
mesi dopo il colpo di Stato che portò Batista al
potere per la seconda volta, il 10 marzo del 1952,
prima di una delle votazioni per la presidenza in
cui le sue possibilità di vittoria erano ridotte a
zero - io non avevo la più assoluta notizia dell’esistenza
di Camacho: lui era uguale a tanti altri giovani
di qualsiasi parte del paese, già stanchi di
sopportare povertà, disoccupazione, sfruttamento e
ingiustizia, che contrastavano con la vita
privilegiata di una minoranza associata ai
proprietari stranieri. (...)
Camacho e Gina, forse sino al 26 di luglio del
1953, non avevano mai nemmeno sentito parlare di
me; uno studente che concludeva suoi studi nella
Facoltà di Diritto e otteneva anche la laurea in
Scienze Politiche e Diplomatiche della nostra
scuola. I miei voti erano stati soddisfacenti e io
dovevo anche mantenermi.
Ma quando circolarono le notizie che si diffusero
rapidamente su quel 26 di luglio del 1953, Camacho
fece tutto il possibile per comunicare con me,
offrendomi le sue conoscenze sulle lotte contadine
nel “Realengo 18”, sul quale Pablo de la
Torriente Brau aveva scritto un brillante
resoconto prima di andare in Spagna a combattere
contro il colpo a tradimento di Francisco
Franco...
Fidel Castro Ruz: Il prologo che mi hanno chiesto
Dal libro di Georgina Leyva Pagán: “Storia di una
gesta liberatrice”.
Fidel Castro Ruz
L’abitudine
di adempiere gli impegni mi ha fatto ricordare che
avevo promesso a Julio Camacho Aguilera, vecchio e
sperimentato combattente, di scrivere un prologo
al libro elaborato da sua moglie Georgina Leyva
Pagán “La storia di una gesta liberatrice 1952
-1958”, del quale è stata stampata una nuova
edizione per la Fiera del Libro di febbraio 2014,
in coincidenza con il 90ª anniversario della sua
nascita, nel mese di marzo di qust’anno.
Gina è una donna coraggiosa e piena di dedizione.
La cosa peggiore è che non potevo dire che nel 55º
anniversario del trionfo della Rivoluzione io
sarei stato saturo di lavoro, perchè realmente sia
Julio che Gina mi avevano chiesto il prologo da
molti mesi.
Quando ho detto loro che erano passati più di 60
anni dal quel 26 di luglio del 1953, mi hanno
inviato una copia stampata nel 2009, cioè 56 anni
dopo,
Così non c’è stato altro da fare che raccontare
quello che ricordo, con totale lealtà.
Nel libro si mostra che eravamo un popolo
pacifico, che viveva in equilibrio con la natura,
intercambiando armoniosamente con lei. Si superava
appena il numero di centoventimila abitanti.
L’astuto navigante europeo che “ci ha scoperto”
credeva realmente d’aver raggiunto l’India.
Nessuno sa quando prese coscienza del suo errore.
Anche se aveva ragione con la sua teoria sulla
sfericità della Terra non è difficile provare,
data la rotta che seguiva, che non sarebbe mai
giunto in India, ma in Cina, dove già a quei tempi
conoscevano la polvere, la bussola, i metalli duri,
e disponevano di eserciti con migliaia di soldati
di cavalleria, alimenti abbondanti, spezie e
ricchezze che l’Europa ignorava.
Senza dubbio, Colombo e i suoi marinai avrebbero
ricevuto un’accoglienza squisita in Cina. I loro
velieri incrociavano il nord di Cuba, non lontano
dall’attuale territorio yankee, quando gli
indigeni parlarono di un’isola più grande situata
a sud.
Girando verso sud-ovest, giunsero nella nostra
isola, (Colombo)ne prende possesso e poco dopo
afferma che “è la terra più bella che mai occhi
umani videro”.
Ma che cos’ha a che vedere questo con Camacho
Aguilera, si domanderanno alcuni. Molto!
La prima azione rivoluzionaria di questi avviene
a Guantánamo, dove gli yankee hanno una grande
base navale, occupata con la forza,
quattrocentodieci anni più tardi, una delle zone
più importanti per lo sviluppo marittimo del
nostro paese e che, nella tappa attuale
costituisce un centro de tortura dove sono vessati
cittadini di molte nazionalità del mondo.
Va visto quello che pubblicano le agenzie
d’informazione più lette del modo. In queste si
possono apprezzare i gravissimi pericoli che
minacciano la sopravvivenza del genere umano. Ci
sono giorni che parlano appena di altri temi.
Quando nella mia modesta lotta, come quella di
tanti altri giovani cubani, presi coscienza della
necessità di un cambio radicale nel nostro paese,
eravamo già 50 volte tante le persone che vivevano
nella nostra Isola, parlavamo la stessa lingua ed
eravamo capaci di provare sentimenti simili, anche
se la maggioranza non sapeva nè leggere nè
scrivere.
All’alba del 26 di luglio del 1953, quando
decidemmo di assaltare la fortezza della Moncada e
la caserma Carlos Manuel de Céspedes a Bayamo —16
mesi dopo il colpo di Stato che portò Batista al
potere per la seconda volta, il 10 marzo del 1952,
prima di una delle votazioni per la presidenza in
cui le sue possibilità di vittoria erano ridotte a
zero - io non avevo la più assoluta notizia dell’esistenza
di Camacho: lui era uguale a tanti altri giovani
di qualsiasi parte del paese, già stanchi di
sopportare povertà, disoccupazione, sfruttamento e
ingiustizia, che contrastavano con la vita
privilegiata di una minoranza associata ai
proprietari stranieri.
Chi
non intendeva questo, non intendeva assolutamente
niente. Io, per mio conto, avevo reclutato già più
di un migliaio di giovani militanti del Partito
Ortodosso, che odiavano gli abusi e gli orrori del
regime militare di Batista, che dopo il Colpo dei
Sergenti del 4 settembre del 1933 usurpò, come
sergente stenografo dello Stato Maggiore la
ribellione dei soldati che incolpavano gli
ufficiali dei crimini del “machadado”.
Gerardo Machado, vecchio e quasi sconosciuto
ufficiale dell’Esercito di Liberazione, si
trasformò in virtù dei maneggi interventisti e
dei costumi degli yankee, nel presidente del paese,
dove impose un regime sanguinario.
Camacho e Gina, forse sino al 26 di luglio del
1953, non avevano mai nemmeno sentito parlare di
me; uno studente che concludeva suoi studi nella
Facoltà di Diritto e otteneva anche la laurea in
Scienze Politiche e Diplomatiche della nostra
scuola.
I miei voti erano stati soddisfacenti e io dovevo
anche mantenermi. Ma quando circolarono le notizie
che si diffusero rapidamente su quel 26 di luglio
del 1953, Camacho fece tutto il possibile per
comunicare con me, offrendomi le sue conoscenze
sulle lotte contadine nel “Realengo 18”, sul
quale Pablo de la Torriente Brau aveva scritto un
brillante resoconto prima di andare in Spagna a
combattere contro il colpo a tradimento di
Francisco Franco, il più fedele servitore della
Germania nazista quando scoppiò la guerra genocida
e criminale contro la URSS, il primo stato
multinazionale e socialista del mondo.
Pablo de la Torriente Brau morì in una trincea di
prima linea in difesa di uno dei fronti della
Repubblica Spagnola, dove più di mille compatrioti
cubani, si afferma, parteciparono a quella guerra.
Io avevo letto vari dei suoi scritti che aiutarono
a forgiare una coscienza politica.
Quanto mi sarebbe stato utile parlare con un uomo
come Pablo de la Torriente, dal cui libro sulle
lotte nel “Realengo 18”, ubicato nella regione di
Guantánamo, estrassi conoscenze tanto utili!
Nessuno crederebbe che Camacho divenne un problema
addizionale. Lo si creda o no, è una storia lunga
e forse senza questa, quello che scrivo perderebbe
il senso.
Quando il Granma giunse a Cuba con 82 uomini a
bordo, dove potevano viaggiare con una certa
comodità 12 viaggiatori, aveva due giorni di
ritardo sul previsto per via dei “fronti freddi
del nord” tempestosi dell’epoca e, a 10 – 12
miglia dalla costa, per via dei cannoni della
tirannia.
Un combattente nostro era caduto in acqua mentre
era di guardia. Nessuno sa se per caso o per
stanchezza, e ci costò più di due ore il suo
salvataggio. Questi era tra quelli che si
occupavano della rotta dell’imbarcazione.
Il navigatore principale era uno degli ufficiali
di marina con il grado di Comandante, mandato via
da Batista, che si era offerto di accompagnarci
con molto piacere.
Il problema è che in quel momento critico dello
sbarco si dimenticò dei fari che indicavano la
rotta esatta dell’entrata in quella zona piena di
rischi, nelle prossimità del faro situato nell’estremo
a sud-ovest della vecchia provincia d’Oriente.
Il Granma aveva già fatto tre giri e l’ex militare
stava iniziandone un quarto mentre albeggiava e
cominciava a sorgere il sole.
Gli dissi con evidente irritazione: “Tu sei sicuro
che questa è la costa di Cuba?”, ma per
infastidire, perchè era evidente che era il nostro
paese.
“Infilati a tutta velocità verso quel punto sino a
penetrare con la prua sulla riva”.
Fatto questo, un vecchio compagno, René Rodríguez
Cruz, piccolo e magro e senza incarichi di sorta,
scese a prua. Dietro a lui, fiducioso, scendo io
con il fucile in mano, il cinturone piena alla
cintura e uno zaino sulla schiena che pesava 30
chili e includeva una pistola mitragliatrice con
molte pallottole ed altre cose essenziali, ma
mentre io mi muovevo, le gambe mi affondavano,
sino a che fui sul punto d’affogare. Riuscii ad
uscire aiutato da altri compagni, con il cinturone,
la borraccia, la dotazione corrispondente e
cominciai a camminare.
Raúl rimase sulla nave sino a quando scese
l’ultima arma che portavamo come scorta, e quindi
cominciammo immediatamente a marciare. Tardammo
due ore a superare quel pantano. L’incredibile è
che stavamo a pochi metri da un molo perfettamente
visibile, se l’imbarcazione avesse seguito il
percorso corretto.
Un altro serio inconveniente fu che quando era
avvenuto il sollevamento di Santiago, due giorni
prima, i compagni di quell’eroica città non
avevano rispettato lo stretto ordine di accertarsi
del nostro arrivo sulla costa, prima di convocare
il sollevamento, com’era stato accordato e
ribadito ad una sola persona.

Batista, che aveva le sue forze principali di
aria, mare e terra a L’Avana, dispose così di 48
ore di tempo per trasferire le sue truppe migliori
alla provincia d’Oriente e la sua aviazione da
combattimento all’aeroporto di Camagüey, da dove
in 20 minuti giungeva nel territorio delle
operazioni.
Esplorammo la zona più vicina al luogo in cui
eravamo arrivati e non si erano ancora riuniti
tutti i compagni della spedizione che già gli
aerei nemici volavano radenti alla nostra ricerca.
Il giorno dopo, mentre marciavamo verso est,
osservai bene l’area che era piana per una decina
di chilometri, di proprietà di importati
proprietari di zuccherifici dell’alta borghesia,
con le canne a diversi stadi di maturazione, che
aspettavano la prossima produzione, che doveva
cominciare in febbraio.
La zona coltivabile era limitata da un’ampia
striscia di terra rocciosa coperta da un bosco
fitto, dove non si poteva seminare alcun tipo di
alimento,
Precedentemente i nostri uomini si erano riuniti e
contavamo su più di 50 fucili con un mirino
telescopico preciso.
Le truppe scelte inviate direttamente nella
regione dello sbarco, come prima cosa occuparono
la linea Niquero-Pilón con vari battaglioni, per
impedire il nostro accesso alla zona occidentale
della Sierra Maestra, lungo la costa sud della
provincia d’Oriente. Nonostante questo, la
caserma di Niquero era di legno e non avrebbe
resistito all’attacco di 82 tiratori, se fossimo
sbarcati al molo che ho citato.
Ritardammo tre giorni per giungere ad Alegría de
Pío, dopo che ci eravamo raggruppati. Dopo il
rigore delle marce in terreni pantanosi, dopo un
lungo viaggio, la forte tensione, gli alimenti
scarsi, evitando gli spazi in cui l’aviazione
avrebbe potuto scoprirci ed attaccarci, giungemmo
ad un punto in cui sistemai gli 82 combattenti.
Alcuni compagni erano così provati che immaginai
che non potevano riposare su quel terreno roccioso,
e decidemmo di ubicare la truppa in un piccolo
bosco a 100 metri circa, prima di giungere a quel
punto.
Se fossimo restati nel luogo scelto la notte
precedente, avremmo preso a fucilate l’unità
militare che ci seguiva, ma era notte e il nemico
non si muoveva in quelle ore, per cui diedi le
istruzioni di far accampare il distaccamento a
pochi metri da quel luogo, nel piccolo bosco di
terra coltivabile, circondato dalle canne da
zucchero.
Il giorno dopo non fu ispezionata la corretta
ubicazione della nostra forza e la retroguardia
non si trovava alla distanza corretta dal resto
del personale, che continuava a riposare.
I nostri uomini cominciavano a sottovalutare un
avversario troppo cauto. Molti dormivano
placidamente. Mancavano a tutti le conoscenze più
elementari di un sergente di plotone.
Poco
prima di mezzogiorno cominciò il gioco aereo del
comando nemico.
Alcuni aerei da combattimento ci passarono sopra a
500 metri circa, ma senza sparare. Mentre giungeva
la sera, cominciarono a volare più bassi e
aumentava il numero dei voli. Era già questione
d’aspettare ancora un’ora per dirigerci verso il
bosco roccioso.
Non avevamo armi antiaree e in quelle circostanze
era più corretto introdurci nel bosco prima che il
nemico cominciasse l’attacco. Ma già non c’era
tempo e il nemico attaccò per aria e per terra,
così rapidamente che quelli che ci seguivano si
scontrarono con la nostra retroguardia, provocando
una grande dispersione.
Io, che ero disteso con il fucile in mano e con il
cinturone con tutte le pallottole, mi muovo di 15
metri circa quando inizia il mitragliamento per
aria e per terra, e vado verso il campo di canne a
sinistra della direzione presa; mi fermo puntando
davanti a me, ma nessun soldato nemico giunge da
quella direzione. Alcuni compagni passavano
rapidamente al mio fianco senza fermarsi. Ne
riconosco uno che portava un fucile e diverse
pallottole nelle tasche e che si ferma lì con me.
Poco dopo arriva Faustino Pérez, che non ha armi,
ma porta notizie sul Che, che aveva assistito come
medico un compagno ferito a morte e che poi si era
riunito con Almeida.
La dispersione era totale.
Quando non spararono più dal campo di canne, ci
spostammo al bosco che era, come ho detto, a 100
metri circa. Avevo visto sparire improvvisamente
il lavoro di anni,
Restava con me un uomo con un fucile, senza
cinturone e con varie pallottole.
Avevo la speranza di esplorare il bosco dove
supponevo che avrei potuto incontrare un numero di
compagni ben armati e di buona tempra, disposti a
continuare la lotta. Non dissi una parola e mi
misi a dormire nella paglia delle canne. Ma ben
presto feci un’amarissima esperienza.
Spiego a Faustino, che era capitano come al capo
di un’organizzazione alleata, l’idea di esplorare
il bosco, io e lui, che non aveva nemmeno il
fucile, e lui mi risponde tranquillamente: “No! Io
penso che dobbiamo continuare da questa parte
dove ci sono le canne”. In quell’istante io mi
indignai tanto profondamente che quasi non potevo
emettere una parola. Lui proveniva dal Movimento
Nazionale Rivoluzionario del professor Bárcenas.
Percepii quasi istintivamente l’enorme forza dello
“spirito piccolo borghese”, che in generale era
allergico al marxismo, al leninismo e al
socialismo.
Anche se non lo dicevano a voce alta, le loro
azioni precedenti e successive lo dimostrarono a
tono con la mentalità che gli yankee avevano
diffuso per il mondo, dopo il trionfo della
Rivoluzione d’Ottobre in Russia, che comunque non
impediva alla piccola borghesia d’opporsi al
brutale colpo di Stato, che era condannato dal
popolo.
Mi spiace dirlo, perchè Faustino era un uomo
coraggioso che era felice combattendo nella
clandestinità. Quanto ho imparato inghiottendo
d’un colpo quella realtà!
Quando si creò il movimento di Pace Estenssoro in
Bolivia, dopo la sconfitta dell’esercito boliviano
provocata dai minatori con esplosivi, e noi
eravamo reclusi per i fatti della Moncada,
Faustino era diventato un “barcenista”, parola
derivata dal cognome di un professore dell’Università,
persona realmente sana, che aveva informato il
professor Agramonte, candidato sostituto di
Eduardo Chibás nelle elezioni presidenziali del
1942, che Batista realmente non stava cospirando,
perchè tutto marciava bene tra i sergenti secondo
le sue notizie, ma disgraziatamente non aveva
considerato che quella volta la cospirazione era
con i capitani e non con i sergenti.
Scrivere la verità sarà sempre un amaro compito.
In quello stesso giorno, poche ore dopo l’azione
nemica in Alegria de Pío, pieno d’indignazione,
feci quello che non dovevo, mentre gli aerei
bombardavano e mitragliavano il bosco, le cui
rocce a volte tagliavano da sole le scarpe dei
camminanti come coltelli affilati. Dopo una
camminata di forse un’ora e mezza, percepimmo un
aereo civile per venti o trenta passeggeri che
girava attorno a noi che marciavamo a 600 metri
dall’apparecchio, tra le canne seminate di recente.
Anni dopo, io che mi ricordavo l’amara esperienza,
decisi d’osservare da un aereo come quello e a
quella distanza: credetemi se affermo che si
vedevano anche le galline e i pulcini nelle
vicinanze delle case più vicine.
Quella volta, 15 o 20 minuti dopo ci avvicinammo
ad un punto situato a circa 25 metri, ma in quel
caso era un campo di canne alte almeno tre metri e
vigorose, tra due isolotti di marabù, una pianta
leguminosa spinosa e dura, difficile da sradicare.
Stavolta un piccolo aereo d’esplorazione girava
attorno a noi e in pochi secondi apparvero diversi
aerei da combattimento di fattura yankee, con
quattro mitragliatrici calibro 50 in ogni ala. Tre
volte la squadriglia passò sopra di noi quando,
dopo aver superato il marabù, eravamo a pochi
metri dalle canne.
In ogni occasione io chiamavo gli altri due
compagni per sapere se erano vivi o morti. Dopo il
bombardamento, un aereo leggero girava
costantemente attorno alle canne dove eravamo
nascosti, a pochi metri dalla riva impedendoci di
muoverci. Un sonno terribile mi invase in pochi
minuti e fu allora che mi collocai la punta della
canna del fucile sotto il mento e mi addormentai
profondamente. Non potevo dimenticare che dopo la
Moncada la pattuglia di Sarria mi aveva svegliato
con la punta dei loro fucili. Avrei dovuto
sopportare due volte la stessa scena? Avevo già
conosciuto quell’esperienza, quando avevo
solamente 26 anni.
Comunque a quest’ora non mi spiego ancora perchè
lasciarono quel piccolo aereo a vigilarci e perchè
i loro soldati assetati di sangue non registrarono
il luogo, nonostante le numerose forze di cui
disponevano.
Quando penetrò nel bosco roccioso, Raúl, che era
anche capitano, incontrò non pochi compagni
ribelli armati, tra i quali reclutò cinque altri
combattenti, aumentando a 7 le armi, con le 2 che
avevo io, il giorno che ci incontrammo a Cinque
Palmas.
Tra gli altri della spedizione del Granma c’erano
eccellenti combattenti, ma non erano riusciti a
convincere altri contadini di pensiero pacifico,
che per questioni di coscienza non potevano
accompagnare combattenti armati, e in quei casi
avevano preso la decisione di nascondere i fucili,
per ricercarli dopo. In quelle circostanze
giunsero senza armi dove stavo io; il nemico se ne
era impadronito.
L’avversario, dando per liquidata la nostra forza,
si dedicò alla ricerca dei nostri resti in ogni
punto della zona di combattimento.
Sierra Maestra è il nome dell’area occidentale di
quella lunga cordigliera che si estende a sud dell’allora
provincia d’Oriente, con alture di circa mille
metri, elevazioni di quasi millecinquecento e il
Pico Turquino, di circa millenovecento metri.
Diverse tra queste cime divennero scenari di
imboscate e duri combattimenti tra le truppe della
tirannia e i giovani patrioti.
Ma non era una questione di armi e risorse: era
una battaglia di idee.
In quel pericoloso processo, un pomeriggio in cui
il Che sofferse un forte attacco di asma, che ci
obbligò a nasconderlo con la maggiore sicurezza
possibile e a proseguire la marcia, arrivammo a un
punto, circa a mezzogiorno, dov’era abituale
ascoltare le notizie con una radio a batterie che
utilizzavano comunemente i contadini.
Quel giorno il generale Tabernilla, vecchio
complice di Batista e Capo del suo Esercito, parlò
per radio dopo la visita di Matthews, un brillante
e capace giornalista del New York Times, che aveva
fatto il reporter dalla Spagna con le notizie
sulla guerra civile.
Il grottesco messaggio del criminale capo dell’esercito
di Batista affermava: “Ne restano dodici e non
hanno altra alternativa che arrendersi o scappare,
se ci riescono... si deve battere il ferro fino
quando è caldo”! Si era affezionato a questa
frase.
In quel momento guardai i miei compagni, ed
eravamo 12 della spedizione del Granma, nè uno di
più, nè uno di meno. Il cinico generale, che
nonostante il suo grado non visitò mai le sue
truppe sulla Sierra Maestra aveva detto azzardando
la cifra esatta.
In quel momento esclamai con forza: “Non
cercheremo mai di scappare e nessuno si arrenderà,
mai!
Nel gruppo c’erano Raúl e Camilo.
Si comprenderà che non possiamo dimenticare che fu
un privilegio e non un merito aver vissuto quell’esperienza
e che penetrarla costituiva un arduo impegno.
Tutti abbiamo sempre una sete insaziabile di
comprendere il senso della vita e di come saranno
i tempi a venire.
Gina, nel suo libro, mi ha aiutato a ricordare e a
comprendere con più precisione il pensiero che mi
stimolava in quegli anni intensi che ho vissuto,
anche se sono cosciente che più un prologo, sto
scrivendo un capitolo de “La storia di una gesta
liberatrice,1952-1958”.
Quella dura guerra durò due anni e 29 giorni.
Fu la nostra scuola di base. L’esperienza,
l’azzardo e l’intensità dei nostri sentimenti ci
condussero al trionfo.
Quella guerra fu la scuola in cui imparammo a
combattere con efficienza.
Nell’ultima Offensiva Strategica le nostre forze
non sommavano ancora 300 uomini con fucili da
guerra, contro i quali la tirannia aveva lanciato
14 battaglioni di fanteria di terra, veicoli
blindati, obici, mortai da 82 millimetri, bazooka,
numerosi aerei, caccia e bombardieri B-26.
Le truppe nemiche soffersero più di mille perdite,
tra morti, feriti e prigionieri.
Le nostre truppe s’incrementarono sino a contare
più di mille combattenti armati, solo nel Fronte
Numero 1 della Sierra Maestra. Sono passati più di
56 anni dai primi combattimenti. Uno a uno avevo
conosciuto i nomi dei compagni che dalla Moncada e
dal Granma erano morti, e di molti altri che
sopravvissero.
Il comandante Raúl Corzo Izaguirre era uno dei
cinque capi che, con la direzione del generale
Eulogio Cantillo, diresse l’ultima offensiva
sferrata dall’esercito di Batista contro le forze
ribelli che difendevano la zona occidentale della
Sierra Maestra e la stazione radio del comando
rivoluzionario, che non alterò mai un solo dato,
perchè era il veicolo d’informazione di tutto il
paese, norma applicata dalla totalità delle
emittenti delle nostre colonne senza eccezione
alcuna.
Alcuni importante capi delle truppe avversarie
avevano sofferto elevate perdite in dipendenza
delle missioni assegnate loro.
Il più importante tra loro era Sánchez Mosquera,
che comandava i paracadutisti, inizialmente con il
grado di Primo Tenente. In quell’occasione
l’esperto ufficiale – dopo la nostra prima
battaglia vittoriosa a la Plata -, precedeva un
centinaio di soldati di un battaglione, con la
missione di scontrarsi per primi contro di noi.
Per quella ragione diversi dei suoi paracadutisti
morirono per gli spari precisi dei nostri tiratori,
e incrementammo cosi le nostre armi da guerra.
La mia lettera, indirizzata a Corzo (comandante
Raúl Corzo Izaguirre) il 10 settembre del 1958,
scritta a mano ma intelligibile, è stata già
pubblicata nel libro di Gina.
Non mi resta altra alternativa che includerla
testualmente se realmente può aiutare a
comprendere quella congiuntura storica:
10 Settembre del 1958, Sierra Maestra.
Stimato signore:
Sono stato informato dettagliatamente su ognuna
delle sue parole. Credo di poter ricavare un
giudizio abbastanza esatto del suo pensiero.
Mi piace la sua franchezza.
Parla soprattutto con autostima, e non si è
lasciato intontire dalla propaganda interessata a
trasformare in uno strumento facile qualsiasi uomo
vanitoso e senza carattere. Volevano sostituirla
con il primo del suo corso, che ha, Lei lo sa bene,
ottenuto la sua fama con molta ignominia e l’ha
persa senza molto valore.
Quello che Lei dice del vero eroe è nobile e
giusto da parte sua. Chi lo può sapere meglio di
Lei o di noi?
Anch’io lo apprezzo molto sinceramente, per la
dignità con cui ha combattuto e l’affetto che ha
saputo conquistare tra i suoi uomini, e questo
dice molto di un ufficiale, anche se la fortuna
gli è stata avversa, e forse per questo, a maggior
ragione, obbliga la nostra cavalleria.
Che dolore pensare nelle intenzioni di Capi tanto
ignobili e molto meno considerati con il compagno
che hanno sacrificato vergognosamente che con i
propri avversari!
Se Lei si fosse visto in una situazione simile,
avrebbe trasformato in infamia gli ipocriti onori
che gli hanno reso.
Lo abbiamo fatto prigioniero pensando precisamente
che ne volevano fare la vittima di qualche
canagliata. Già furono aabbastanza gli errori e le
incapacità del comando.
Un giorno si scriverà la verità su tutto questo.
Quello che è successo a Lei, inoltre, ha aiutato a
farli preoccupare di più per Lei. Anche lui ha un
alto concetto di Lei, che mi ha espresso in varie
occasioni.
Anche se quello che Lei ha proposto come una buona
soluzione (quella del Signor C. M. S.) è una cosa
inaccettabile in assoluto per noi, mi rivela che
Lei agisce con sincerità e non la muovono
ambizioni che potrebbero stare alla portata delle
sue mani, ed è vero quello che Lei afferma,
d’essere l’unico che conta qualcosa in questo
istante.

La maggior parte dei suoi compagni che ostentano
il comando sono stati tanto indolenti che non si
sono nemmeno preoccupati dell’ affetto dei loro
soldati, e sembra vero che Lei è molto più deciso.
Questo, a parte il fatto che è un apprezzamento
personale, è quello che dicono di Lei quelli che
la conoscono e che aggiungono anche che Lei è un
uomo testardo. Cosa che può essere una virtù in
determinate circostanze.
La mia poca fede nella maggior parte dei militari
cubani si basa sull’indecisione che li
caratterizza e sulla forma ingloriosa con cui si
allontanano dall’ufficialità.
Devo fare un’eccezione molto giusta con il
Capitano Ch. Anche se è stato troppo sprovveduto.
Poi hanno cercato di coprire il suo nome d’infamia
con la tattica ripugnate e odiosa di quelli che
non rispettano alcun sentimento.
Il ruolo dell’ufficialità dell’Esercito non poteva
essere più triste.
Non mi riferisco alle scampanate che rintoccano
solo come conseguenze logiche per difendere tanta
funesta e impopolare causa.
Nessun esercito con tradizioni, maturità e
coscienza del suo destino si sarebbe fatto
trascinare in una situazione simile, mantenendo
l’ascendente sulla truppa e il discredito nei
quadri degli ufficiali che si sanno senza
influenza con i soldati. Una Dittatura si poteva
mantenere infinitamente, sino a che non si fosse
vista nella necessità di sferrare una guerra:
perchè per sferrare una guerra ci vuole più di uno
strumento d’oppressione. L’ufficialità non si è
preoccupata di arrestare questa politica, mentre
con assenza totale di spirito di corpo, vedeva
cadere uno dopo l’altro i suoi migliori valori.
Lei in un certo senso ci può ringraziare per
l’opportunità d’avere fatto qualcosa in questo
senso, perchè è la guerra, condividendo rischi,
privazioni e sforzi, l’ambiente idoneo per quello.
Lei è stato più intuitivo di altri
Scrivendole queste righe, nè con molta, nè con
poca speranza che saranno utili in qualche modo,
desidero puntualizzare alcune idee e concetti.
Noi siamo convinti d’avere la ragione in questa
guerra.
Personalmente non lotto per nessuna aspirazione.
Questo è quasi ovvio dirlo.
Inoltre ho una pessima opinione degli uomini
vanitosi e penso come Martí che “tutta la gloria
del mondo entra in un chicco di mais”.
Ho vissuto in questa lotta momenti molto difficili
senza perdere la fede, e momenti di trionfo senza
perdere la testa, da quando ci vedemmo solamente
in dodici pronti alla lotta, e potevamo resistere
solamente ad un plotone e sino a quando siamo
stati sufficienti per respingere uno dopo l’altro
i migliori battaglioni dell’esercito.
In ogni tappa di questa lotta ho cercato d’avere
un’idea molto precisa della nostra situazione e
della situazione degli interessi che combattiamo.
Soluzioni che per noi potevano essere un trionfo
un anno fa o più, oggi non possono soddisfare
nessuno perchè gli uomini non muoiono invano.
Siamo
giunti alla guerra perchè furono negate alla
nazione una parte del sue esigenze, ed oggi non si
può giungere alla pace se non si accede a tutte.
Non hanno voluto lasciarci in pace quando la sorte
ci era contraria.
Tabernilla ha detto: “ Sono restati in dodici e
non gli resta altra alternativa che arrendersi o
scappare, se ci riescono...”.
Non si può aspettare da noi la minor disposizione
a lasciare loro in pace quando tutte le
circostanze ci sono favorevoli.
Quando lo sciopero è fallito non si è pensato di
offrire al paese una pace onorevole, ma sono state
lanciate contro di noi tutte le forze per
sterminarci. L’offensiva è terminata in un
disastro e quelli che propugnavano quella brutta e
implacabile politica, si devono preparare a
raccogliere i suoi amari frutti.
Perchè dovremmo dare la minima considerazione al
Regime che l’ha propiziata, e ai capi militari che
l’hanno sostenuta? Lei crede che si può ridare la
vita a centinaia di contadini assassinati senza
ragione, rettifica o scuse possibili?
La Rivoluzione, che è un proposito rinnovatore,
un’aspirazione di giustizia nei popoli, poteva
essere schiacciata due anni fa, se ci fossero
stati un poco di previsione, d’intelligenza e di
senso storico in Batista.
Continua
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