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								LA VITTORIA STRATEGICAQuevedo a Jigüe
 (Capitolo 11)
 
                              
                              
                              Fidel Castro Ruz 
								
								Al contrario di quello che si poteva prevedere 
								ragionevolmente, le due compagnie  del 
								Battaglione  18 nemico, giunte nel  pomeriggio 
								di giovedì  26 giugno a Jigüe, non solo 
								proseguirono  immediatamente la  loro 
								penetrazione risalendo il fiume, ma si 
								dedicarono a stabilire l’accampamento in questo 
								luogo ed a fortificare le loro posizioni. 
								 
								
								Quella stessa notte gli uomini di Raúl Podio e 
								Fernando Chávez li attaccarono. Il primo, come 
								si ricorderà, custodiva la cima di Cahuara, al 
								disopra  della posizione nemica; e il secondo 
								aveva assunto il comando del personale ribelle 
								sul fiume La Plata, 
								dalla notte precedente, sostituendo Pedro Miret 
								e René Rodríguez. 
								
								L’arrivo di questa truppa a Jigüe ed il suo 
								stabilimento in questo luogo, ci permetteva di 
								preparare le condizioni per eseguire il piano 
								che avevamo già cominciato ad elaborare Quello 
								che si doveva fare era chiudere la forza nemica 
								in un cerchio dal quale non potesse scappare, 
								mantenerla immobile sino ad ottenere la sua 
								resa, detenerla e, se fosse stato possibile, 
								distruggere i rinforzi, se ne avessero inviati 
								in aiuto. 
								
								Per quello, il teatro delle 
								operazioni a Jigüe e sul corso inferiore del 
								fiume La Plata 
								riuniva condizioni topografiche ideali. 
								 
								
								L’accampamento nemico, messo  nel centro del 
								settore meridionale del territorio controllato 
								da noi, era circondato da ogni parte di cime e 
								alture che potevano essere occupate con facilità 
								dai nostri uomini e dalle quali si poteva 
								mantenere, con un numero relativamente piccolo 
								di combattenti, la pressione, il blocco dei 
								rifornimenti e la persecuzione necessaria per 
								sostenere un accerchiamento efficace. L’unica 
								via  possibile per il nemico, per rafforzare la 
								sua truppa assediata, era quella del fiume, per 
								il cammino che risaliva dalla spiaggia e lungo 
								il quale esistevano decine di luoghi nei quali 
								si potevano creare imboscate efficaci contro 
								qualsiasi rinforzo.  
								
								In questo caso funzionava la nostra conoscenza 
								 intima del terreno, una delle priorità del 
								guerrigliero ed una delle  questioni alle quali 
								prestammo la maggior attenzione dall’inizio 
								della lotta nella Sierra Maestra. Questa 
								conoscenza era ciò che ci aveva dato modo di 
								concepire il piano d’azione ed era, inoltre, 
								quello che ci avrebbe permesso di giungere alla 
								convinzione che il luogo che più si prestava al 
								combattimento per le sue caratteristiche 
								topografiche e per la sua distanza relativa, sia 
								dalla costa che  dalla truppa che sarebbe stata 
								situata là, era Purialón. 
								
								Il 28 giugno, appena un giorno  e mezzo dopo 
								l’arrivo del Battaglione 18 a Jigüe, diedi a Paz 
								i primi ordini preparatori sull’accerchiamento 
								 e lo stabilimento della linea difensiva contro 
								gli eventuali rinforzi. Il primo fu di 
								rafforzare la posizione di Podio nell’altura di 
								Cahuara con la squadra di Ramón Fiallo, che 
								prima  copriva alcuni dei punti della costa a 
								ovest del fiume La Plata, ed inviai da  Mompié 
								una piccola squadra di riserva, al comando di 
								Arturo Pérez, a raggirare il sentiero che 
								ascendeva  di fronte da Jigüe all’altopiano di 
								El Pino e  la zona di Mayajigüe. Il secondo fu 
								chiedere  a Paz che mandasse  un esploratore a 
								verificare se non erano restate guardie a 
								Purialón. Io contavo sull’arrivo imminente  di 
								Camilo e dei suoi uomini  a La Plata per 
								inviarlo a quella posizione  cruciale, mentre i 
								combattenti di Paz si sarebbero incaricati 
								dell’accerchiamento della forza nemica 
								principale. 
								
								 In quella data, la mia attenzione era centrata 
								nella preparazione del colpo alla truppa 
								stazionata a Santo Domingo. Ma, anche includendo 
								questa pianificazione, dovevo prendere in 
								considerazione la possibilità che, iniziando il 
								combattimento a Santo Domingo nella forma 
								prevista - il giorno dopo - la forza nemica 
								accampata a Jigüe ricevesse l’ordine d’avanzare 
								verso l’altura di
								La Plata 
								per andare in aiuto dei suoi compagni, attaccati 
								dall’altra parte della cima  della Maestra. Così 
								avvisai  Paz che si mantenesse preparato, già 
								che quella poteva essere la sua opportunità di 
								sferrare un buon colpo, che aspettavamo con 
								tanta ansia. 
								
								Indubbiamente  durante tutto lo sviluppo della 
								prima Battaglia di Santo Domingo, tra i giorni 
								28 e 30 giugno, il Battaglione 18 non si mosse 
								dal suo accampamento di Jigüe. Secondo la 
								testimonianza successiva  del comandante 
								Quevedo, la prima azione  concreta dei suoi 
								uomini  fu l’esplorazione  che realizzò, 
								risalendo il fiume,  la Compagnia 103, una delle 
								due che integravano la  forza accampata, che non 
								rivelò alcun risultato. Tutto  indicava che 
								quell’incursione non si allontanò  molto da 
								Jigüe, perchè non si avvicinò nemmeno alle 
								posizioni di Paz a El Naranjal, a meno di 
								quattro chilometri dall’ 
								accampamento di Quevedo. 
								
								Il 2 luglio, il capo del Battaglione 18 inviò 
								due plotoni della sua forza in missione di 
								rifornimento  alla spiaggia. Quella sarebbe 
								stata  una buona opportunità per colpire il 
								nemico, ma tuttavia non contavamo con un numero 
								 sufficiente di uomini per chiudere  
								l’accerchiamento. 
								
								Altre due occasioni si presentarono il giorno 
								dopo, la prima di mattina, quando ritornarono a 
								Jigüe i due plotoni custoditi da altri due della 
								Compagnia G-4, che integrava il Battaglione 18, 
								e  che, come si ricorderà, era rimasta alla foce 
								del La Plata; 
								 la 
								seconda, nel pomeriggio, quando quest’ultima 
								forza ritornò  alla sua base sulla spiaggia. 
								
								Alla fine, il nemico si mosse sabato 5  luglio. 
								Quella mattina partirono dall’accampamento di 
								Jigüe quattro plotoni e parte delle armi 
								d’appoggio del Battaglione 18  -un bazooka e un 
								mortaio da 60 millimetri -  in direzione delle 
								sorgenti del fiume La Plata, 
								lungo il  suo corso superiore. Come si poteva 
								sperare, poco dopo si scontrarono con 
								l’imboscata di Paz a El Naranjal. 
								
								Il combattimento cominciò esattamente alle 10.20 
								di mattina. Sin dal giorno prima io mi ero 
								spostato verso la zona di  Meriño per 
								organizzare l’accerchiamento  che avevamo 
								pianificato di tendere contro la forza nemica, 
								arrivata il giorno 3 in questo luogo. 
								 
								
								Lì mi raggiunse il primo avviso di Camilo da La 
								Plata, 
								informandomi che si ascoltava una forte 
								sparatoria in direzione della spiaggia, 
								confermato pochi minuti dopo da una messaggio 
								simile del Che da Mompié. Non fu che alle due 
								del pomeriggio che  Camilo mi comunicò d’aver  
								ricevuto un primo messaggio di Paz, nel quale 
								informava che le  guardie avanzavano in due 
								direzioni verso la sua  posizione, e che aveva 
								già dovuto sparare, 
								prima che giungessero alle mine collocate sul 
								cammino. 
								
								In realtà, già a quell’ora  Paz aveva respinto 
								l’avanzata  delle guardie dopo un intenso 
								combattimento di più di tre ore di durata. I 
								poco più di  30 combattenti ribelli, protetti da 
								buone trincee, decisi a resistere e attuando con 
								intelligenza, furono capaci di frustrare la 
								spinta di più di 150 soldati nemici, appoggiati 
								da un mortaio, provvisti di abbondanti munizioni 
								e comandati da un capo abile. Assieme agli 
								uomini di  Paz combatterono nella decisiva 
								azione di El Naranjal le squadre di Hugo del 
								Río, Joel Pardo, Fernando Chávez e Vivino 
								Teruel, oltre agli uomini  della mitragliatrice 
								50, utilizzata da Fidel Vargas. 
								
								L’importanza del Combattimento a El Naranjal non 
								derivava dalla quantità di armi - e altro - 
								catturate o dalle perdite del nemico. In quanto 
								alla prima voce, c’impadronimmo solamente di un 
								fucile Springfield, varie centinaia di 
								pallottole  ed alcune granate da fucile. Le 
								perdite nemiche  riconosciute furono  otto 
								feriti, anche se Paz affermò nei suoi comunicati 
								d’aver ammazzato almeno quattro soldati. 
								
								Radio Rebelde successivamente informò che erano 
								morte  cinque guardie. 
								
								Senza dubbio, il fatto  aveva l’enorme 
								significato
								d’aver  liquidato in maniera definitiva la 
								minaccia rappresentata dalla truppa nemica nella 
								sua avanzata dal Sud. Non solo impedimmo al 
								nemico di realizzare il suo obiettivo e lo 
								respingemmo al suo accampamento base, ma gli 
								sferrammo un colpo psicologico  demolitore, come 
								dimostrarono gli avvenimenti successivi. 
								
								Vale la pena citare 
								qui la valutazione realizzata dallo stesso capo 
								del Battaglione 18, il comandante José Quevedo: 
								
								[...] il saldo più doloroso per i nostri uomini 
								era morale: si notava la frustrazione  in tutti 
								ed in ognuno di loro. 
								
								Senza commenti sapevamo che non era tanto per il 
								fallimento, ma per l’abbandono costante di cui 
								si vedevano oggetto da parte del Quartier 
								Generale e dell’alto comando militare. Sapevano 
								che per l’operazione avevamo chiesto un appoggio 
								aereo e non lo avevano mandato; sapevano dei 
								compagni feriti e che avevamo chiesto un 
								elicottero per evacuarli e non lo avevano 
								invitato; sapevano, grazie ai commenti dei loro 
								compagni, che i capi di Bayamo dicevano che i 
								prigionieri erano mal custoditi e, peggio 
								ancora, che erano d’accordo con i custodi, tanto 
								che i detti capi non si spiegavano com’era 
								possibile che sino a quel momento non li avevamo 
								riscattati e che andando a compiere una missione 
								tanto  "semplice", si erano trovati di fronte ad 
								un nemico poderoso che aveva abbondanti armi 
								automatiche e persino una mitragliatrice calibro 
								50. 
								
								È chiaro che in quell’analisi aveva omesso una 
								 considerazione fondamentale: non si trattava 
								tanto di una pretesa superiorità ribelle in armi 
								e munizioni -  mai esistita – e nemmeno del 
								preteso abbandono del quale furono oggetto le 
								guardie da parte dell’alto comando della 
								tirannia – che  sí che esisteva per alcune 
								misure - ma dell’evidente qualità morale del 
								guerrigliero in relazione con la povera morale 
								combattiva della guardia, da un 
								
								lato e, dall’ altro, della buona conoscenza  e l 
								’adeguato utilizzo del terreno dei nostri 
								uomini, che dava loro un vantaggio addizionale 
								di molta importanza. 
								
								Lo stesso Quevedo riconobbe che tra i fattori 
								che lo fecero ritirare di nuovo verso Jigüe 
								figurava la considerazione che i ribelli 
								sferravano il combattimento  nel terreno scelto 
								da loro ed in posizioni "inespugnabili". Secondo 
								il capo del  Battaglione 18, gli altri elementi 
								considerati furono la necessità d’evacuare  i 
								loro feriti ed il pericolo che la loro 
								retroguardia si vedesse  circondata dalle forze 
								ribelli. 
								
								Quest’ultima menzione era interessante, perchè 
								era precisamente quello che io avrei disposto se 
								avessimo avuto un numero sufficiente di uomini 
								per farlo.  
								
								Si ricorderà che dal 26 di giugno, quando 
								Fernando Chávez aveva ricevuto  la missione di 
								preparare la difesa ribelle sul fiume al di 
								sotto di Jigüe, e di ritirarsi, se fosse stato 
								necessario,  verso l’altura di Cahuara, era già 
								stata   concepita da noi la variante d’attaccare 
								con quella forza il nemico dalla retroguardia, 
								nel caso in cui le guardie  arrivate a Jigüe 
								proseguissero la loro avanzata e si scontrassero 
								con  l’imboscata di El Naranjal. Ma poi  fu 
								necessario mandare  Chávez in quel punto per 
								rafforzare le posizioni  di Paz, e restarono 
								nell’altura di Cahuara solo le squadre di Podio 
								e Fiallo. D’altra parte la manovra era quasi 
								impossibile dal momento che il nemico lasciò 
								parte della sua forza a Jigüe, proteggendo 
								precisamente la  sua stessa retroguardia. 
								
								Il giorno dopo il Combattimento  di El Naranjal, 
								la mia decisione era  presa: concentrare un 
								dispositivo  abbastanza numeroso  per poter 
								sviluppare con assoluto successo l’operazione 
								d’accerchiamento e la distruzione  dei rinforzi, 
								come avevamo  concepito. Come parte della 
								preparazione dell’accerchiamento, mandai a 
								cercare, quello stesso giorno, Guillermo García, 
								che con il suo plotone era situato da prima sul 
								cammino di San Francisco, con il proposito di 
								bloccare l’entrata per il corso superiore del 
								fiume Yara da  El Cacao o da El Verraco. Dopo il 
								contenimento del nemico a Santo Domingo, era 
								molto  improbabile che in quella  direzione 
								sorgesse una minaccia considerevole. Guillermo 
								giunse  a La Plata 
								il 7 luglio, lo stesso giorno del Combattimento 
								di Meriño, e partì verso  la zona di Jigüe il 
								giorno 8, dopo aver ricevuto le mie dettagliate 
								istruzioni. 
								
								Questi uomini fecero due cose giungendo a Jigüe, 
								dopo una dura camminata sulla cima di Manacas 
								per circondare l’accampamento nemico. La prima 
								fu esplorare tutta la zona per conoscere in 
								dettaglio  le posizioni  occupate dalle guardie 
								e le misure  difensive che avevano preso. La 
								seconda, riempire  di trincee tutta la falda 
								della cima di Manacas, di fronte 
								all’accampamento nemico, ed anche la cima di 
								Cahuara. 
								
								Un’altra misura per rafforzare il dispositivo 
								ribelle a Jigüe fu il trasferimento della 
								mitragliatrice 50 di Curuneaux verso la 
								posizione di Paz, che si era mantenuto a El 
								Naranjal dopo il combattimento, in attesa  di 
								una nuova ubicazione. Curuneaux, come si vedrà 
								nel prossimo capitolo, aveva partecipato, il 
								giorno 8, al Combattimento di Meriño. 
								
								Io avevo  deciso d’occuparmi personalmente della 
								direzione  generale di tutta l’operazione di 
								Jigüe, considerando il suo carattere complesso 
								ed il significato decisivo che poteva avere una 
								forte vittoria ribelle, non solo nello sviluppo 
								dell’offensiva nemica, ma anche in quello 
								ulteriore di tutta la guerra. Questo non voleva 
								dire che mancavamo di capi capaci di farlo.
								 
								
								Non avevo il minimo dubbio che Camilo o il Che, 
								per nominare solo due di loro, avevano capacità 
								d’avanzo, ma, a mio giudizio la considerazione 
								principale era che il capo che dirigeva le 
								operazioni doveva avere la più alta autorità su 
								un gruppo numeroso di capitani  ai quali, nei 
								giorni successivi, sarebbe stato domandato il 
								massimo, e che a loro volta avrebbero dovuto 
								chiedere il massimo ai loro uomini.  
								
								Quella decisione supponeva il mio trasferimento 
								fisico al teatro delle operazioni durante tutto 
								il tempo di durata della  battaglia, e la mia 
								attenzione  quasi completa al suo 
								sviluppo.  
								
								Per quello dovevo risolvere il comando degli 
								altri due settori del fronte, in ognuno dei 
								quali  tuttavia erano pianificate  minacce 
								concrete. 
								
								Nel caso del settore di Santo Domingo, la 
								presenza di Sánchez Mosquera continuava ad 
								essere  un elemento da considerare. Io ero  
								sicuro che anche il sanguinario capo nemico non 
								aveva fatto la sua ultima mossa nel tentativo di 
								raggiungere la cima  della Maestra nella zona di 
								La Plata. L’incaricato d’affrontare questa 
								minaccia, fu Camilo, che  di fatto era già 
								divenuto il capo di tutto il settore dal mio 
								trasferimento all’operazione di Meriño, la notte 
								del 3 luglio. 
								
								Nel caso del settore nord occidentale,  il Che 
								avrebbe continuato l’organizzazione della difesa 
								del territorio ribelle nei dintorni di Minas de 
								Frío e  Vegas de Jibacoa, come lo aveva fatto 
								 generalmente sino ad allora. Qui la minaccia 
								era rappresentata, prima di tutto, dalla 
								
								presenza del forte contingente nemico a San 
								Lorenzo e dalla possibilità che tentasse assalto 
								della cima della Maestra nella zona di Minas de 
								Frío; in secondo luogo, per la continuata 
								occupazione di Vegas de Jibacoa da parte del 
								Battaglione 19 e il pericolo che queste truppe 
								potessero forzare l’accesso alla  Maestra dalla 
								zona di Mompié o della  stessa  Minas. 
								Indubbiamente, contare con questi due 
								luogotenenti  mi offriva fiducia più che 
								sufficiente per potermi occupare dell’operazione 
								di Jigüe, e lasciare nelle loro  
								
								rispettive mani la responsabilità di così  
								importanti accessi al cuore del territorio 
								ribelle. 
								
								Eravamo  convinti che la resa di un battaglione 
								completo e la distruzione  degli importanti 
								rinforzi che se indubbiamente avrebbe inviato il 
								comando nemico come aiuto alle truppe assediate, 
								sarebbero stati colpi distruttori per la 
								tirannia in ordine morale e materiale. 
								 
								
								Certamente eravamo già riusciti a fermare a 
								spinta nemica e l’ iniziativa, in pratica, era 
								passata nelle nostre mani. Ma non si poteva, 
								neanche minimamente sostenere che in quel 
								momento l’offensiva era stata sbaragliata. 
								 Questo sarebbe avvenuto dal partire  dal 
								momento in cui il Battaglione che pensavamo 
								d’accerchiare a  Jigüe si fosse  arreso. 
								
								Se dividessimo in tappe i settanta e più giorni 
								che durò l’offensiva nemica, dovremmo segnalare 
								un primo momento di sviluppo di quell’offensiva, 
								nella quale l’iniziativa corrispose totalmente 
								al nemico, particolarmente tra il 25 maggio e il 
								28 giugno,  cioè tra l’inizio dell’operazione 
								della presa di Las Mercedes e l’inizio della 
								prima Battaglia di Santo Domingo, con il 
								Combattimento di Pueblo Nuevo. A partire da 
								quel  momento si aperse una seconda tappa che si 
								potrebbe  caratterizzare come di contenimento  
								dell’offensiva, nella quale il nemico ricevette 
								i primi colpi considerevoli, e o fu 
								immobilizzato o   gli impedimmo di avanzare in 
								due o tre settori. L’unica eccezione fu 
								l’entrata delle guardie a Meriño, ma il 
								risultato di quella  manovra fu tanto disastroso 
								per il nemico che l’ eccezione  non bastò per 
								invalidare la regola. Questa tappa si  prolungò 
								 forse sino all’11 di luglio, data in cui 
								cominciò
								la Battaglia 
								di Jigüe, a partire dalla quale iniziò la tappa 
								che si potrebbe denominare “della controffensiva 
								ribelle, durante la quale l’iniziativa ci 
								appartenne  interamente. Ci fu anche 
								un’eccezione: l’occupazione di Minas de Frío da 
								parte del nemico avvenuta il 15 luglio, ma anche 
								questo non fu sufficiente  per impedire la 
								caratterizzazione del  momento. 
								
								Conclusa con un risultato abbastanza favorevole 
								l’operazione di Meriño, ritornai da Minas de 
								Frío a Mompié, e nella notte del 9 luglio andai 
								sull’altura di Cahuara, al di sopra 
								dell’accampamento nemico di Jigüe, dove giunsi 
								all’alba del giorno dopo. Avevo deciso  di 
								stabilire  in quel luogo il mio posto di comando 
								sino a quando era in atto  l’operazione contro 
								il Battaglione 18 e i rinforzi, che significava  
								ritornare alla seminomade tappa della 
								guerriglia, con gli accampamenti sulla montagna. 
								Non era possibile dirigere un’operazione di 
								quell’importanza  controllando da lontano, ed 
								era vitale farlo  dalla stessa  linea del 
								combattimento. 
								
								Prima di andarmene da Minas, incontrai Lalo 
								Sardiñas e Andrés Cuevas, e spiegai loro 
								 dettagliatamente la missione che dovevano  
								compiere. Nel loro caso dovevano  formare a 
								Purialón la linea principale di contenimento, 
								respingendo i rinforzi provenienti dalla 
								spiaggia in appoggio alle truppe che avremmo 
								accerchiato a  Jigüe. A quei due capitani  
								corrispondeva il compito più importante di tutta 
								l’operazione pianificata.  
								
								L’audacia e la capacità nel combattimento che 
								avevano dimostrato nelle settimane precedenti  
								giustificavano pienamente la fiducia che 
								ponevamo in loro e negli uomini ai loro ordini. 
								
								Lo schema tattico si completava con la missione 
								che avrebbe sviluppato  Ramón Paz, al quale 
								pensavo d’affidare il compito d’ubicarsi anche 
								nella zona di Purialón, con l’obiettivo di 
								raggirare dalla retroguardia i rinforzi quando 
								si sarebbero scontrati con l’imboscata di Cuevas 
								e Lalo. L’idea era non solamente detenere e 
								respingere il rinforzo, ma distruggerlo. 
								
								La selezione di Paz per questa  missione era 
								ovvia. Questo  capitano aveva provato, prima a 
								La Caridad e poi nel Combattimento di El 
								Naranjal, la sua intelligenza, l’iniziativa e la 
								decisione, tutte condizioni che lo rendevano il 
								capo idoneo per quella parte dell’operazione, 
								che richiedeva quelle qualità in chi la doveva 
								eseguire. 
								
								Per quello era importante istruire Paz, che era 
								ancora ubicato a El Naranjal. Per quello, la 
								prima cosa che feci fu andare sull’altura di 
								Cahuara, dopo che  Podio e Fiallo mi 
								illustrarono  la situazione delle forze nemiche  
								e le posizioni  occupate dai loro uomini, ed 
								avvisare  Paz che sarei andato a vederlo per 
								coordinare con lui le idee del piano, e 
								chiedergli  che mi venisse incontro sul cammino 
								dell’ospedale di Martínez Páez per avere 
								sufficiente tempo per riunirmi con lui e 
								ritornare in quella stessa notte a Cahuara.
								 
								
								Quest’ultima cosa  era cruciale per me, dato che 
								il piano  doveva  entrare in esecuzione la 
								mattina di venerdì 11 luglio, ed io volevo stare 
								al mio posto in quel momento. 
								
								Con questo avviso chiesi a  Paz che piazzasse 
								immediatamente, senza aspettare il mio arrivo 
								per l’incontro con lui, la mitragliatrice  50 di 
								Curuneaux con la sua squadra d’appoggio. Quella 
								era un latro pezzo chiave del piano, dato che 
								doveva formar parte essenziale del dispositivo 
								d’accerchiamento della truppa nemica accampata a 
								Jigüe. Altri elementi di quel  dispositivo 
								erano, in un primo momento, le squadre di Fiallo 
								e Podio, ridistribuite sulla falda della cima  
								di Cahuara, immediatamente a ovest e nordovest 
								dell’ accampamento delle  guardie; la piccola 
								squadra di Arturo Pérez, che da vari giorni era 
								situata alla salita dell’altopiano di El Pino, a 
								nord della posizione nemica;  gli uomini di Hugo 
								del Río che stava assieme a Paz a El Naranjal, 
								avrebbero dovuto occupare posizioni in una  
								piccola cima a nordest dell’accampamento del 
								Battaglione 18, in direzione di El Naranjal. 
								Questi sarebbero stati gli uomini destinati 
								inizialmente all’accerchiamento, che avremmo 
								completato e  rafforzato nella misura del 
								necessario. 
								
								Dopo il mezzogiorno  di giovedì  10 luglio 
								intrapresi la marcia dall’altura di Cahuara per 
								incontrarmi con Paz. Il cammino si faceva più 
								lungo e difficile per via del girono che era 
								obbligatorio percorrere per tutta l’altura di 
								Jigüe, per evitare l’accampamento nemico e poter 
								salire all’altro lato. Poco tempo dopo, nel 
								cammino, si sentì il rumore caratteristico 
								dell’esplosione delle nostre mine, relativamente 
								vicino al luogo dove stava passando il piccolo 
								gruppo che mi accompagnava, seguito da una breve 
								ma intensa sparatoria.  
								
								Immediatamente prendemmo tutte le precauzioni 
								del caso ed aspettammo  durante i minuti della 
								sparatoria. Al termine di tutta quell’attività, 
								inviammo  uno dei nostri compagni ad esplorare i 
								dintorni, che ritornò con la notizia che non si 
								vedeva niente, ed allora decidemmo di continuare 
								la marcia. 
								
								Quando  incontrammo gli uomini della squadra di 
								Arturo Pérez sapemmo la causa della sparatoria. 
								Risultò che una pattuglia nemica che saliva 
								verso la cima, in direzione dell’altura di El 
								Pino,  si scontrò a sorpresa con la posizione  
								ribelle.  
								
								Il Vaquerito,  che dopo aver terminato il suo 
								lavoro d’aiuto  a Celia,  Vegas de Jibacoa, 
								aveva chiesto  d’essere inviato in linea di 
								combattimento e lo avevamo quindi assegnato a 
								questa squadra, decise di far saltare una mina 
								senza grandi speranze di causare danni alle 
								guardie, ma per intimorirli e farli scappare. 
								L’effetto riuscì sino ad un certo punto, perchè 
								il nemico si girò ed intraprese una veloce corsa 
								verso il basso, mentre i nostri uomini aprivano 
								un fuoco  indiscriminato e si lanciavano a loro 
								volta verso l’altura. Il risultato fu una 
								posizione  rivelata,  una mina sprecata e varie 
								decine di pallottole sciupate inutilmente. 
								
								Alcioni giorni dopo, grazie ai rapporti  di 
								alcune delle guardie catturate, sapemmo che non 
								si trattava nemmeno di una pattuglia, ma di tre 
								o quattro guardie che erano salite accompagnando 
								a casa sua, nella parte alta di El Pino la guida 
								 della loro truppa, un contadino di nome Isidro 
								Fonseca. 
								
								Confermai, allora la mia opinione iniziale che 
								se la posizione ribelle fosse stata debitamente 
								protetta per l’osservazione, e se si fosse agito 
								con serenità e decisione quando era avvenuto 
								l’incontro a sorpresa, sarebbe stato possibile 
								catturare lì quelle guardie, cioè avere la 
								possibilità di contare con un’apprezzabile  
								fonte d’informazioni sulla composizione ed i 
								piani della forza nemica che ci  proponevamo di 
								perseguire a partire dal giorno seguente. 
								
								Questo incidente vicino all’altura di  El Pino 
								fu esageratamente considerato in un primo 
								momento. Quando avvenne l’incontro con le 
								guardie e prima del mio arrivo,  Arturo Pérez 
								inviò un messaggio allarmista e inesatto nel 
								quale dava a intendere che un importante 
								contingente nemico stava marciando in direzione 
								dell’altura di  El Pino, e che i suoi  uomini 
								erano stati obbligati e ritirarsi. Se fosse 
								 stata certa quella  notizia, avrebbe 
								significato che le guardie avevano tentato un 
								movimento a sorpresa, destinato ad occupare lo 
								strategico altopiano di El Pino, che dominava la 
								posizione del nemico a Jigüe, o chissà con il 
								fine di aggirare l’imboscata di El Naranjal e 
								proseguire verso  l’inizio del fiume La Plata 
								e la cima della Maestra. In qualsiasi  dei due 
								casi, la ritirata della squadra che proteggeva 
								questa direzione lasciava aperto il cammino al 
								nemico, e si poteva
								creare una situazione molto pericolosa. 
								
								Per fortuna giunsi sul posto quasi 
								immediatamente  dopo l’incidente, e mi resi 
								conto che le informazioni di  Arturo Pérez non 
								corrispondevano alla realtà. Ma  a quel primo 
								messaggio andava aggiunta poco dopo l’altra 
								informazione ugualmente fantasiosa che le 
								guardie  non solo avevano  sperato la posizione 
								ribelle nella salita di El Pino, ma che anche 
								avevano raggiunto la zona di Mayajigüe, 
								dall’altro lato del massiccio, e che potevano 
								così  minacciare la retroguardia delle nostre 
								posizioni a El Naranjal e la stessa  zona a
								La Plata. Il 
								Che ricevette le due informazioni e si rese 
								conto  che non erano molto coerenti.  Nonostante 
								questo, in maniera preventiva istruì per 
								telefono  Camilo a
								La Plata, 
								perchè inviasse un rinforzo a coprire il cammino 
								dell’ospedale. 
								
								Quando ci rendemmo contro senza più dubbi di 
								quel che era accaduto, presi la decisione 
								immediata di disarmare Arturo Pérez e consegnare 
								il comando della squadra a Il Vaquerito, con 
								l’indicazione che doveva già occupare nuove 
								posizioni ancora più vicine all’accampamento 
								nemico. 
								
								Di tutta questa situazione, nessuno dei miei due 
								luogotenenti principali sapeva che io ero al 
								corrente di quanto accaduto. Al contrario, dato 
								che  conoscevano il mio progetto di trasferirmi 
								quel giorno per incontrarmi con Paz, li 
								 preoccupava il fatto che non ero  ubicato, e 
								che andavo precisamente per la zona dove si 
								diceva che era avvenuto un combattimento, con il 
								conseguente rischio d’essere sorpreso dalle  
								stesse  guardie che, si supponeva, avevano 
								assaltato l’altura di El Pino. Ma già nelle 
								prime ore della notte, tutto fu chiarito e 
								all’alba mandai di ritorno dove si trovava 
								Camilo, il rinforzo che aveva inviato lui.
								 
								
								Durante quella notte  ordimmo la trama per  
								l’inizio, il giorno seguente, dell’operazione 
								contro la truppa nemica di Jigüe. Ho già 
								spiegato la disposizione della linea organizzata 
								a Purialón per aspettare e respingere i rinforzi 
								che sarebbero giunti dalla spiaggia, così  come 
								le scarse forze ribelli  si sarebbero occupate 
								in una prima fase di mantenere le ostilità 
								contro le guardie assediate. Un gruppo di 
								questi  uomini sarebbe avanzato nella notte 
								sulle  posizioni nemiche e  si sarebbe 
								avvicinato all’accampamento a  sufficienza per 
								aprire il fuoco all’alba sulle guardie. 
								
								L’intenzione di quella  prima scaramuccia era di 
								causare alcune perdite al nemico, obbligando il 
								capo del  battaglione ad evacuare gli uomini 
								verso la spiaggia; di quell’occasione doveva 
								approfittare Guillermo,  posizionato sul fiume 
								in attesa della colonna di guardie che scendeva 
								da  Jigüe, per assestare il primo colpo di 
								considerazione. Così, secondo il piano, sarebbe 
								cominciata la battaglia per la quale tutto era 
								stato disposto all’alba dell’11 giugno.  
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