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								LA VITTORIA STRATEGICALa Plata minacciata
 (Capitolo 9º)
 
                              
                              
                              Fidel Castro Ruz 
								Il 
								19 e il 20 giugno furono probabilmente i giorni 
								più critici di tutta l’offensiva. Nel trascorso 
								di tali giornate, come abbiamo già raccontato 
								nei capitoli precedenti, le forze nemiche 
								riuscirono a occupare Santo Domingo e  Vegas de 
								Jibacoa, basi di operazioni potenzialmente molto 
								importanti per il successivo assalto al rifugio 
								ribelle sulla cima della Maestra, e raggiunsero 
								una penetrazione profonda nel territorio ribelle 
								dal Sud dopo essere state battute dalla piccola 
								forza di Ramón Paz a La Caridad.  
								
								 Per 
								noi, la cosa peggiore in quei due giorni, come 
								abbiamo già visto, fu, da un lato, la 
								convinzione che almeno in uno di questi due 
								fronti – quello di Vegas – la resistenza non era 
								stata totalmente efficace e decisa come sarebbe 
								stato necessario, e, dall’altro, l’incertezza di 
								fronte alla scarsità delle informazioni precise 
								di quello che stava succedendo nel Sud. Ma, 
								anche di fronte a questa realtà, che mi 
								provocava, com’è da immaginarsi, profonda 
								inquietudine, feci uno sforzo per valutare 
								serenamente la nuova situazione creata e 
								prendere una serie di misure al fine di 
								applicare il piano previsto per un’eventualità 
								di questo tipo. 
								
								Anche in un simile momento, in cui il nemico 
								aveva l’iniziativa tattica, i nostri piani non 
								contemplavano semplicemente la difesa 
								scaglionata del territorio ribelle. In una 
								guerra classica, si potrebbe supporre che in una 
								simile congiuntura si sarebbero dovute applicare 
								appieno le idee e le strategie concepite in base 
								alle caratteristiche del terreno ed alla 
								disponibilità delle proprie forze.  
								In 
								effetti, una delle linee dominanti nei miei 
								ragionamenti strategici, fin dallo stesso inizio 
								dell’offensiva nemica, era l’approfittare del 
								terreno. Specificamente, l’impiego a beneficio 
								dei nostri piani della topografia caratteristica 
								della Sierra Maestra, costituita da valli o 
								depressioni circondate da alture. Nella pratica, 
								non mi preoccupava molto che alcune delle unità 
								nemiche riuscissero a penetrare nel territorio 
								dove si era concentrata la difesa ribelle, 
								sempre che l’unità cadesse in una di quelle 
								valli o depressioni. In realtà, non poteva non 
								farlo, visto che nelle valli della Sierra è dove 
								si trovano due degli elementi più importanti per 
								il sostentamento di un contingente relativamente 
								numeroso di truppe, che sono l’acqua e le vie di 
								comunicazione più rapide, che, anche quando 
								transitano per parte del loro percorso tra le 
								cime delle montagne, tendono a cercare  i corsi 
								dei fiumi o i ruscelli che in modo invariato 
								corrono per il fondo di tali depressioni. 
								 
								Una 
								truppa stazionata in una valle della Sierra 
								Maestra era un bersaglio propizio per lo 
								stabilimento di un accerchiamento lungo le 
								alture circostanti. Con una simile ubicazione – 
								e tenendo in conto che un assalto frontale ad 
								un’altura è sempre, in ogni tipo di guerra, una 
								delle operazioni più difficili, e ancora di più, 
								date le caratteristiche montuose della maggior 
								parte dei pendii della Sierra in quel momento – 
								la truppa assediata aveva tanto in teoria quanto 
								in pratica poche possibilità di uscire dalla 
								situazione nella quale si trovava senza contare 
								su appoggi esterni; in altre parole, se non 
								disponeva di rinforzi che accorressero a rompere 
								l’accerchiamento dal di fuori e aiutassero ad 
								uscire le truppe assediate.  
								
								Come operazione militare, l’accerchiamento suole 
								essere di carattere nettamente offensivo. La sua 
								intenzione, in generale, è di ottenere la resa 
								della truppa assediata dalla fame, o di cercare 
								di esaurire le sue risorse difensive mediante 
								azioni di consumo, al fine di poter lanciare 
								alla fine un assalto alla posizione assediata, 
								nel caso in cui fosse necessario. 
								Ma 
								ci può essere un altro tipo di assedio, il cui 
								obiettivo sia solo di contenere qualsiasi 
								movimento offensivo della truppa assediata. 
								Quest’ultimo dà all’assedio, più che un 
								carattere offensivo, uno controffensivo. 
								
								L’operazione che io avevo in mente, come prima 
								fase della risposta alla minaccia posta dalla 
								truppa nemica che riuscì a penetrare a Santo 
								Domingo il 19 giugno, potrebbe essere spiegata 
								come una combinazione di questi due tipi di 
								accerchiamenti. 
								
								 Fin 
								dal giorno precedente, quando arrivai alla 
								realistica conclusione che non sarebbe stato 
								possibile impedire l’entrata del nemico in quel 
								luogo, nella mia mente cominciò a prendere forma 
								il piano di stabilire eventualmente 
								l’accerchiamento alla truppa. Ma che non si 
								creda che, in quel momento, l’obiettivo 
								principale al quale aspiravo fosse, come istanza 
								immediata, la cattura della forza nemica che 
								sarebbe stata accerchiata, cosa che si sarebbe 
								potuta raggiungere solo attraverso un assalto 
								frontale. Era ovvio che a simili altezze la 
								correlazione di forze non ci avrebbe permesso di 
								intraprendere un’azione di tale natura che, 
								d’altra parte, avrebbe potuto provocare un 
								numero considerevole di perdite tra le nostre 
								file. Il nemico manteneva ancora l’iniziativa e 
								le sue truppe si trovavano più o meno intatte, 
								avanzava in modo simultaneo da tre direzioni. 
								Noi non eravamo in condizioni di concentrare in 
								un’operazione, per un tempo relativamente 
								prolungato, la quantità di forze necessarie per 
								stabilire una correlazione locale adeguata. Ciò 
								avrebbe significato indebolire troppo le linee 
								difensive opposte alle altre direzioni d’attacco 
								del nemico, cosa che avrebbe potuto creare 
								conseguenze disastrose. 
								
								L’accerchiamento che avevo in mente, in questa 
								prima fase, era fondamentalmente di 
								contenimento. Non era stato possibile evitare la 
								penetrazione in territorio ribelle. Ciò che 
								bisognava fare adesso era non permettere alla 
								forza nemica di fare neppure un passo in più, né 
								in avanti, né indietro. In altre parole, per 
								utilizzare un’espressione che io stesso impiegai 
								nel messaggio al Che del 18 giugno, già citato, 
								si trattava di “imbottigliare” il nemico. O come 
								scrissi a Suñol in quello stesso giorno, prima 
								dell’occupazione di Santo Domingo ad opera delle 
								guardie: 
								In 
								caso che i soldati scendano per il Cacao e 
								riescano ad entrare a S.D. (Santo Domigo) dopo 
								aver combattuto con Paco (Cabrera Pupo), allora 
								non li lasceremo continuare né in giù, né in su 
								né dentro la Sierra, e non resterà loro altro 
								cammino che ritornare da dove sono venuti a meno 
								che non riusciamo a chiudere anche quello, cosa 
								che non risulterebbe molto facile perché la cima 
								(l’altopiano di El Cacao) è completamente 
								scevro. 
								
								Tuttavia, tale accerchiamento potrebbe svolgere 
								anche un ruolo offensivo nella misura in cui 
								fosse capace di stancare e demoralizzare il 
								nemico intrappolato a Santo Domingo, così come, 
								preparare i mezzi necessari per colpire o 
								distruggere i rinforzi inviati in suo aiuto. In 
								questo modo, forse si creerebbero le condizioni 
								propizie per, in un secondo momento, ottenere la 
								resa della truppa assediata. 
								La 
								fluida situazione tattica che si produsse il 19 
								mi obbligò a variare provvisoriamente questo 
								piano, almeno per quello che si riferiva alla 
								chiusura del fiume Yara, sotto Santo Domingo, 
								per il quale avevo pensato di utilizzare la 
								piccola forza di Félix Duque, e avevo già dato 
								gli ordini pertinenti. Non si poteva pensare 
								allora all’occupazione dell’altura di El Cacao, 
								a parte il fatto che era “completamente scevro”, 
								mentre esisteva ancora qualche truppa nemica 
								considerevole nella zona di El Verraco. 
								Qualsiasi forza ribella stazionata in 
								quell’altopiano sarebbe rimasta tra tre fuochi: 
								davanti da Santo Domingo, dietro dalla direzione 
								di El Verraco e El Cacao, e dal di sopra 
								dall’aria, in una montagna nella quale  non 
								c’era possibilità di difendersi contro un 
								attacco aereo. 
								Per 
								queste ragioni, il piano di accerchiare la 
								truppa di Santo Domingo non si eseguì nella sua 
								totalità fin dai primi momenti. Come già 
								menzionato, la via del fiume restò scoperta, e 
								lo sarebbe rimasta nei giorni successivi per la 
								necessità prioritaria di chiudere tutti gli 
								accessi alla montagna della Maestra ad ovest di 
								Gamboa. L’altura di El Cacao sarebbe stata 
								occupata di nuovo il 29 giugno, dopo che il 
								resto della truppa nemica che si trovava 
								dall’altro lato, la attraversasse e si unisse a 
								quella di Santo Domingo. 
								Al 
								posto suo, ciò che si stabilì da subito fu una 
								linea difensiva di contenimento che occupava le 
								direzioni per le quali non si poteva permettere 
								in nessun modo un ulteriore avanzo del nemico. 
								Queste due direzioni furono, ovviamente, quella 
								del corso superiore del fiume Yara e quella 
								della montagna di El Naranjo, che conducevano in 
								modo più o meno diretto ad una penetrazione a 
								fondo nel “territorio basico” ribelle. 
								 
								
								Rispetto al Naranjo, la missione di impedire 
								tutti gli ulteriori avanzamenti corrispondeva, 
								in un primo momento, alla stessa piccola truppa 
								di Paco Cabrera Pupo che lottò in La Manteca, 
								alla quale si era unito il gruppo agli ordini di 
								Huber Matos, rafforzata adesso da quello di 
								Geonel Rodrìguez, arrivato immediatamente dopo 
								quel combattimento. Ma nei giorni successivi 
								all’entrata del nemico a Santo Domingo rafforzai 
								in modo progressivo tale linea con l’arrivo di 
								nuove forze estratte da altre zone di 
								operazioni. 
								
								Come parte di quel rafforzamento difensivo 
								nell’area dell’altura di El Naranjo, intorno al 
								giorno 22, posizionai personalmente la squadra 
								di Dunny Pérez Álamo, che era stato sulla 
								spiaggia di La Playa come parte delle forze di 
								Pedro Miret e alla quale avevo ordinato di 
								permanere nella zona del Commando di La Plata 
								dopo la ritirata causata dallo sbarco della 
								Compagnia G-4 il 20. Le nuove posizioni del 
								personale sarebbero state  nel pendio di El 
								Naranjo, dall’altro lato, e molto vicino alla 
								cima di La Plata, nel punto in cui si 
								incrociavano il cammino di El Naranjo e quello 
								di Los Mogos. La gente di Álamo doveva coprire 
								tutte e due le direzioni in caso necessario. 
								Tale gruppo di circa 20 uomini, sarebbe anche 
								rimasto per il momento in condizione di riserva 
								per essere utilizzato a seconda delle 
								circostanze e, posteriormente, avrebbe formato 
								parte dell’accerchiamento di Santo Domingo. 
								
								Mandai anche a cercare una squadra appartenente 
								alle forze di Camilo, la quale fu separata dal 
								resto di quella truppa e restò nella zona di 
								Agualrevés con Ramiro; la posizionai vicino e 
								alla sinistra della posizione di Lalo Sardiñas, 
								al principio del rilievo de Los Mogos. Questa 
								squadra, di sei o sette uomini, era agli ordini 
								di Zanén Meriño. 
								Il 
								26 inviai anche sulla cima di El Naranjo la 
								nostra principale arma pesante, “l’artiglieria”: 
								la squadra della mitragliatrice calibro 50 agli 
								ordini di Braulio Curuneaux. Nei giorni finali 
								del mese di giugno posizionai il plotone di René 
								Ramos Latour, Daniel, - che era arrivato il 23 
								alla Plata al fronte di un gruppo di rinforzo 
								proveniente da Santiago di Cuba – più o meno a 
								metà della distanza tra quelle posizioni e 
								l’altura della Maestra, come secondo scaglione 
								di riserva che sarebbe entrato in azione in caso 
								necessario. Questa relativa concentrazione di 
								forze dimostra l’importanza più diretta per 
								l’assalto alla montagna della Maestra  nelle 
								vicinanze di La Plata. 
								
								Tutte le squadre della prima linea di 
								contenimento sarebbero state subordinate a Paco 
								Cabrera Pupo, salvo il gruppito di Zenén Meriño, 
								che per la sua ubicazione si sarebbe subordinato 
								agli ordini di Lalo Sardiñas a Pueblo Nuevo. Ma, 
								precisamente in quei giorni, Paco Cabrero Pupo 
								si ammalò con dolore di appendicite acuta e 
								dovette ritirarsi; in conseguenza di questo, non 
								potette assumere le funzioni di combattente 
								durante il resto dell’offensiva. In assenza di 
								Paco, non mi restò altra alternativa che 
								affidare il comando generale di questa linea a 
								Hubert Matos. 
								Il 
								20, il gruppo di Paco Cabrera Pupo si era 
								trasferito all’altro lato del ruscello di El 
								Naranjo, e occupato posizioni nel cammino che 
								sale per il ruscello, un po’ più su della casa 
								di Clemente Verdecia, la stessa che aveva 
								servito fino a pochi giorni prima come 
								laboratorio di confezione di bombe e riparazione 
								di armi. In quel luogo si poteva fare resistenza 
								tanto nel caso in cui i soldati cercassero di 
								salire per il ruscello per occupare El Naranjo, 
								quanto in quello in cui prendessero verso la 
								montagna, visto che quel cammino usciva di circa 
								100 metri dalla posizione occupata da Paco.
								 
								Fu 
								da lì che Paco Cabrera Pupo dovette ritirarsi il 
								22 o il 23 verso La Plata. Durante quei due o 
								tre giorni, il nemico non cercò di entrare per 
								El Naranjo. Si limitò a fare alcune esplorazioni 
								per i pendii che cadono sul margine sinistro del 
								Yara, ai lati del ruscello El Naranjo. 
								 
								
								Dopo che Huber Matos assunse il comando, diedi 
								l’ordine di dividere il gruppo in tre. Una 
								piccola squadra di quattro o cinque uomini, agli 
								ordini di Paco Cabrera González, occupò due 
								trincee esistenti nel punto nel quale il cammino 
								che usciva dalla cima di El Naranjo entrava nel 
								monte e cominciava ad ascendere, dopo aver 
								lasciato dietro di sé le prime case di El 
								Naranjo e un pezzo di campagna. La squadra di 
								Geonel Rodríguez si situò proprio sull’altopiano 
								della collina di Sabicú, alla sinistra del 
								cammino. 
								
								Hubart Matos, da parte sua, si istallò con il 
								resto del personale in altre trincee in un punto 
								intermedio della salita verso la cima in pieno 
								monte della falda di Sabicú. 
								
								L’idea di una simile distribuzione era di 
								coprire due delle possibilità di avanzata delle 
								guardie, in caso in cui cercassero di salire 
								sulla cima di El Naranjo, cioè, per il camino – 
								circondando l’altura di Sabicú – o di fronte, 
								attraversando il monte, per guadagnare 
								direttamente l’altopiano di Sabicú. 
								In 
								ogni caso si sarebbero scontrati con i gruppi di 
								sotto e di sopra, rispettivamente, mentre la 
								funzione del gruppo intermedio di Huber Matos 
								era di rafforzare sopra o sotto, dove fosse 
								necessario. La squadra di Geonel, inoltre, 
								doveva prevenire la possibilità che il nemico 
								cercasse di conquistare la cima per la falda 
								opposta a El Naranjo, questo è, per il lato del 
								ruscello di Los Mogos. 
								
								Molti dei nostri combattenti, ai quali 
								corrispose occupare posizioni in questa linea, 
								trovarono le loro trincee già fatte. Questo 
								pendio del monte di El Naranjo, per la sua 
								prossimità alle istallazioni del Comando di La 
								Plata, era stato uno dei luoghi nei quali 
								lavoravamo con maggiore intensità nella 
								preparazione del terreno, in vista alla difesa 
								del cuore del nostro territorio. 
								
								Collaterale all’altura di El Naranjo c’era il 
								quella della montagna di Gamboa, che muore nel 
								fiume Yara, di fronte a Santo Domingo, lì dove 
								si era posizionato prima Paco Cabrera Pupo 
								immediatamente dopo il combattimento di La 
								Manteca. Avendo passato Paco all’altura di El 
								Naranjo, mandai a Félix Duque a coprire 
								quell’altra importante via di possibile accesso 
								alla cima della Maestra per questa zona. La 
								squadra del Duque, che in quel momento contava 
								con non più di 10 uomini, si trovava molto 
								vicina alla metà del cammino tra il fiume Yara e 
								la punta della Maestra. 
								
								Un’altra entrata alla stessa Maestra che poteva 
								essere utilizzata dalle guardie era la via dei 
								luoghi conosciuti come El Cristo e El Toro, per 
								i quali si accedeva alla cima del cosiddetto 
								negozietto della Maestra ubicato nella stessa 
								zona di Jiménez tra La Plata e Mompié. 
								Quest’accesso fu coperto immediatamente dalla 
								squadra di Eddy Suñol, le cui posizioni in 
								Providencia perdevano di senso dopo l’entrata 
								del nemico a Santo Domingo. 
								Per 
								quanto riguarda la seconda via principale, 
								quella dal fiume in su, dal 18 giugno, quando 
								ricevetti le prime informazioni non confermate – 
								che risultarono incerte – del fatto che il 
								nemico era penetrato a Santo Domingo, ordinai a 
								Lalo Sardiñas di scendere con i suoi uomini per 
								la Jeringa e di situarsi il più vicino possibile 
								alle guardie per il cammino del fiume. Gli 
								uomini di Lalo realizzarono a marcia forzata, 
								quella stessa notte, la difficile e stancante 
								camminata per la Loma Azul, e arrivarono al 
								fiume Yara, all’altezza della tenuta di Gustavo 
								Sierra a Santana, all’alba del 19, quasi mentre 
								cominciava la sparatoria nella Manteca. 
								Il 
								giorno successivo avevano già preso posizione 
								nella zona di Pueblo Nuevo, a poco meno di due 
								km vicino alla casa di Lucas Castillo a Santo 
								Domingo, dove Sánchez Mosquera istallò il suo 
								posto di comando. 
								
								Qualsiasi truppa stazionata a Santo Domingo 
								aveva quattro vie possibili nel caso in cui 
								avesse l’intenzione di penetrare più in 
								profondità nel territorio ribelle. Tre di esse 
								conducevano in modo diretto alla cima della 
								Maestra. La più occidentale era quella che 
								saliva per tutto il pendio di Gomboa, il cui 
								accesso era coperto da Duque. La seguiva, verso 
								est, la via che prendeva per il ruscello di El 
								Naranjo e la falda della collina di Sabicú fino 
								alla cima di El Naranjo, e lungo di esso fino 
								all’altopiano della Maestra, molto vicino al 
								Comando della Plata e delle istallazioni di 
								Radio Rebelde. La terza di queste vie era un 
								sentiero che usciva da Pueblo Nuevo, oltre il 
								ruscello di Los Mogos, e incrociava il cammino 
								di El Naranjo vicino al picco della Maestra. 
								L’unione di queste due vie era la posizione 
								difesa da Álamo. Infine, la quarta via probabile 
								era seguire il cammino del fiume Yara verso 
								l’alto, con intenzione di sviarsi alla destra 
								verso la cima, per il cammino che saliva per 
								Santana o meglio per La Jeringa, arrivando alla 
								Maestra, vicino l’altura di Palma Mocha. La 
								rotta di Gamboa avrebbe portato il nemico ad 
								ovest del Comando; e quelli di Santana o Palma 
								Mocha, ad est. Conducevano direttamente alla 
								zona del Comando i cammini di El Naranjo e di 
								Los Mogos, che si univano, come già detto, molto 
								vicino alla cima. 
								La 
								posizione che ordinai di prendere a Lalo 
								Sardiñas all’altezza di Pueblo Nuevo aveva 
								precisamente come obiettivo di coprire, tanto 
								l’eventuale arrivo della truppa nemica dal 
								fiume, quanto la possibilità di un tentativo di 
								ascesa per il cammino di Los Mogos. In un 
								messaggio che inviai il 21, diedi a Lalo 
								istruzioni espresse di spostarsi più in basso 
								del sentiero di Los Mogos, il quale era, 
								inoltre, la sua via di ritirata in caso 
								necessario, e lo avvertii: 
								È 
								necessario combattere duramente. Ogni pezzo di 
								terreno che si perde, deve perdersi dopo averlo 
								difeso arduamente. Quando ti troverai già sul 
								sentiero che sale alla Maestra dovrai 
								trincerarti e non lasciarli passare. 
								
								Bisognava evitare ad ogni costo che il nemico 
								raggiungesse la montagna della Maestra, dalla 
								quale, apparentemente lo separava solo un passo. 
								Io ero convinto di aver valutato in modo certo 
								le intenzioni nemiche, ed ero disposto a fargli 
								pagare a caro prezzo quel passo. Si trattava, 
								forse, del momento più critico, nell’ordine 
								tattico di tutta l’offensiva. Tuttavia, si 
								manteneva inalterabile la mia fiducia nella 
								capacità difensiva delle forze ribelli in quella 
								zona. Informo il Che lo stesso giorno del fatto 
								che: 
								La 
								situazione qui è migliorata un po’, ma continua 
								ed essere ancora imprecisa. 
								La 
								truppa della casa di Lucas non si è mossa di un 
								metro in su o verso Naranjo dove ci sono le 
								nostre imboscate praticamente doppie (....). 
								Lalo sta già controllando il cammino a Santo 
								Domingo da questo lato (....). 
								
								Lalo, in definitiva, temendo che in caso di 
								incontro le guardie avrebbero potuto raggiungere 
								un’altezza al margine destro del fiume dal quale 
								colpire o circondare l’imboscata ribelle, occupò 
								una posizione approssimativamente 200 metri 
								indietro rispetto a quella indicata, ma sempre 
								davanti a quella di Los Mogos. Lì aveva 
								distribuito i 23 uomini della sua truppa ai lati 
								del fiume e del cammino, tra i campi di caffè 
								vicini alla casa del collaboratore contadino 
								Mario Maguera. Da questo luogo alla casa di 
								Lucas Castillo, dove Sánchez Mosquero aveva 
								installato il suo posto di comando, c’erano 
								1.200 metri per il fiume. 
								In 
								quel momento, il plotone di Lalo Sardiñas 
								contava su di appena 11 armi, sette delle quali 
								potevano considerarsi più o meno efficaci. Le 
								altre erano fucili e moschetti Máuser. In quanto 
								ai rifornimenti, le armi che ne erano più 
								provviste disponevano tra i 60 e gli 80 
								proiettili. Uno dei fucili ne aveva solo otto. 
								L’aspetto generale di questa piccola truppa, mal 
								vestita e peggio calzata, fece che molti 
								combattenti ribelli vi si riferissero come agli 
								“scamiciati”. D’altra parte, anche se già in 
								quel momento la situazione era migliorata 
								considerevolmente grazie all’aiuto dello stesso 
								Mario Maguera e, soprattutto, Feliciano Rivero – 
								un haitiano il cui chalet si trovava sul margine 
								sinistro del fiume, circa 600 metri dietro 
								l’imboscata – le lunghe settimane durante le 
								quali permasero nella zona di Los Lirios erano 
								state difficili per loro in quanto 
								all’alimentazione. 
								
								Dentro la disposizione operativa prevista nel 
								piano di operazioni dell’Esercito, la forza di 
								scontro al comando del tenente colonnello 
								Sánchez Mosquera era composta dal suo 
								Battaglione – il numero 11 – e dal Battaglione 
								22, agli ordini diretti del comandante Eugenio 
								Menénendez. Questa seconda unità avrebbe avuto 
								all’inizio la missione di marciare alle spalle 
								dell’altra, per assicurare la sua retroguardia e 
								le sue linee di rifornimento. 
								
								Dopo il 12 giugno, al prodursi il cambio di 
								direzione nell’avanzata del Battaglione 11, 
								anche l’altra unità variò il cammino della sua 
								marcia e seguì la stessa che prese Sánchez 
								Mosquera. Tra i due battaglioni si manteneva 
								sempre una distanza approssimata, equivalente a 
								due giorni di marcia. 
								Il 
								19 giugno, il Battaglione 22 si trovava a El 
								Verraco. Ricevetti la conferma di questa notizia 
								in un messaggio che mi inviò Lalo Sardiñas in 
								arrivo a La Jeringa, dove mi si informava con 
								sufficiente precisione che si trattava di una 
								truppa di 300 uomini. Lo stesso 19, anche 
								Almeida mi comunicò la presenza di questa truppa 
								a El Verraco e apprezzò, erroneamente, che si 
								muoveva in direzione di Estrada Palma. 
								
								Questa situazione fu motivo di inquietudine per 
								noi durante i giorni critici del 19 e 20 giugno. 
								A Lalo ordinai di lasciare alcuni uomini 
								sull’altopiano di San Francisco, per prevedere 
								la possibilità che la forza nemica tentasse di 
								attraversare il fiume Yara, cadendo nella 
								retroguardia della posizione che avevo ordinato 
								di occupare allo stesso Lalo a Pueblo Nuevo e 
								creando una situazione sommamente complicata. Il 
								20 giugno comunicai tale preoccupazione al Che. 
								Nel messaggio che gli mandai parlo della 
								probabilità di tale movimento come un “fattore 
								nuovo che può presentarsi” e che avrebbe 
								alterato un’altra volta il mio piano. E al 
								giorno successivo, in un altro messaggio a Paz, 
								che stava sul fronte sud, tornai sullo stesso 
								tema: 
								Per 
								il momento non c’è pericolo di salita di truppe 
								da Santo Domingo verso la Maestra per il cammino 
								di Palma Mocha (quello di Santana), perché la 
								truppa nemica arrivata a Santo Domingo l’abbiamo 
								mezzo imbottigliata in casa di Lucas (Castillo), 
								però questo pericolo può sorgere se dal Verraco 
								o dal Cacao entrano truppe da San Francisco o la 
								Jeringa verso il principio del fiume Yara, 
								vicino a Santo Domingo. 
								
								Quando questa situazione si presenterà, spero di 
								risolverla se Cuevas finalmente appare con il 
								suo plotone e le reclute che ha portato. E non 
								c’è neppure bisogno di dire che, se arriva anche 
								Camilo, allora sbaraglieremo le guardie. 
								In 
								realtà, come dimostreranno i fatti, la mia 
								valutazione circa il punto di destinazione di 
								questa forza, era corretta. Ciò che variò fu il 
								cammino scelto. Resta solo da immaginarsi cosa 
								sarebbe successo se il Battaglione 22 avesse 
								cercato di attraversare verso il fiume Yara per 
								l’altopiano di San Francisco. Forse non lo fece 
								perché il comando nemico considerò che quella 
								via era ben difesa, quando la verità era che in 
								quel momento non c’era nessuno ad incaricarsi 
								del camino di San Francisco. Lalo non ricorda di 
								aver lasciato nessun personale in quel momento 
								in quella posizione. 
								Il 
								21 giugno, Guillermo García, che era venuto 
								seguendo un cammino parallelo al nemico per le 
								montagne da quando si produsse il cambio di 
								direzione, era dalle parti di Agualrevés e La 
								Jeringa, e informò che la truppa si trovava 
								all’altezza di Rancho Claro. Con l’arrivo del 
								capitano Guillermo in quella zona si alleviava 
								un po’ la minaccia tattica perché i combattenti 
								dei quali disponeva potevano offrire una prima 
								resistenza efficace in caso che il nemico 
								cercasse di attraversare il fiume Yara. 
								
								Tenendo in conto la situazione posta da queste 
								due forze nemiche, e prevedendo anche 
								l’accerchiamento che io pensavo di tendere 
								intorno a Santo Domingo, avevo ordinato a Andrés 
								Cuevas che si posizionasse nella zona di 
								Rascacielo, a poco più di un km ad est della 
								cima di La Plata. Cuevas arrivò in quel luogo il 
								22. Da lì poteva agire come riserva, in 
								qualsiasi delle due direzioni nelle quali la sua 
								presenza come rinforzo fosse necessaria, visto 
								che era più o meno equidistante da Santo Domingo 
								e dalla Jeringa. Gli uomini di Cuevas arrivarono 
								a Rascacielo dopo l’altra faticosa giornata 
								dall’altopiano della Caridad. La situazione 
								materiale di questa truppa ribelle era 
								abbastanza difficile. Come si ricorderà, aveva 
								perso i suoi zaini a La Caridad, catturati dai 
								soldati del comandante Quevedo, il 19 giugno. 
								Cuevas mi scrisse il 23: 
								(…) 
								ciò di cui abbiamo bisogno è che ci mandi 
								qualcosa con cui coprirci, visto che questa 
								notte 9 uomini non hanno potuto dormire perché 
								faceva molto freddo e non abbiamo nulla, e 
								rispetto alle scarpe, Lei sa che con le 
								camminate che abbiamo fatto molti sono rimasti 
								scalzi. Per il cibo abbiamo un uomo che ci dà 
								delle verdure, abbiamo bisogno di sale o 
								altrimenti un po’ di carne salata di quella di 
								Yeyo (Gello Argelís) che ci va bene, e anche 
								alcuni fagioli.  
								
								Nonostante  quelle penurie, la disposizione 
								combattiva del valoroso capitano ribelle e dei 
								suoi uomini non era decaduta: “(...) questo è un 
								buon luogo per aspettare i soldati”, mi diceva 
								Cuevas nello stesso messaggio. 
								
								Salvo piccole pattuglie di esplorazione che 
								inviava a corta distanza dal suo accampamento, 
								Sánchez Mosquera non realizzò nessun movimento 
								per vari giorni successivi alla sua entrata a 
								Santo Domingo. Tutto sembrava indicare che, 
								d’accordo con un piano pre-concepito, stesse 
								aspettando l’arrivo del secondo battaglione, che 
								componeva la sua forza d’assalto, prima di fare 
								il passo successivo. 
								Ma 
								non tutto era tempo perso per questo tenente 
								colonnello che si era guadagnato le sue stelle 
								assassinando contadini. Di fronte all’imminente 
								arrivo delle guardie, Lucas Castillo aveva 
								abbandonato casa sua assieme a tutta la sua 
								famiglia, e si era rifugiato in montagna. 
								Sánchez Mosquera gli mandò un messaggio con una 
								delle sue due figlie: “Dì al vecchio che torni a 
								casa sua, che eviti gli stenti della montagna, 
								che non ha nulla da temere”. 
								
								Lucas Castillo, ingenuamente, credette in quelle 
								parole e si presentò pochi giorni dopo. I 
								dettagli di quanto avvenne dopo nessuno sa dirli 
								con certezza. Il punto è che dopo la presunta 
								ritirata di Sánchez Mosquera alla fine di 
								luglio, il cadavere di Lucas Castillo, 
								crivellato, comparve in una delle decine di 
								tombe scavate nei campi di caffè contigui alla 
								sua stessa casa, che servì da improvvisato 
								cimitero per le molteplici morti e vittime 
								innocenti delle guardie. Assieme all’anziano, 
								furono massacrati altri quattro contadini, due 
								dei quali membri della sua famiglia, con cui 
								l’ufficiale assassino volle saziare la sua sete 
								o vendicare codardamente la sua impotenza. 
								
								Quei giorni di inattività a Santo Domingo 
								coincisero, su altri fronti, con lo sbarco del 
								grosso Battaglione 18 alla bocca di La Plata, e 
								l’inizio della penetrazione di quella forza 
								nemica lungo tutto il fiume dal Sud. Tuttavia, 
								non sarebbe stato che fino alla notte del 26 
								l’arrivo delle truppe di Quevedo a Jigüe e lo 
								stabilimento dell’accampamento in quel luogo. In 
								quanto al settore nord-ovest, dopo l’occupazione 
								di Las Vegas di Jibacoa il 20, le forze nemiche 
								non avevano realizzato nessun altro movimento 
								importante. 
								
								Pertanto, nei giorni immediatamente posteriori 
								al 20 giugno, il pericolo principale, 
								nell’ordine tattico, era posto dalle forze 
								nemiche ubicate a Santo Domingo, quelle che 
								erano penetrate più a fondo e si trovavano, 
								sembrava, a un passo dal cuore del territorio 
								ribelle. 
								Il 
								24 giugno, cinque giorni dopo l’arrivo di 
								Sánchez Mosquera a Santo Domingo, avvenne un 
								fatto che sembrava privo di importanza, ma che 
								avrebbe esercitato una considerevole influenza 
								sugli eventi posteriori. 
								A 
								metà della mattina di quel giorno, una pattuglia 
								di tre guardie a cavallo si avvicinò per il 
								fiume fino al ruscello di Los Mogos, e cominciò 
								a salire per il margine sinistro. Probabilmente 
								più per spirito di esplorazione, si erano 
								avventurati fin lì, a un km dalle ultime linee 
								del perimetro dell’accampamento nemico a Santo 
								Domingo, in cerca di alcune vacche e muli che, 
								stando a notizie ricevute, andavano sciolte per 
								quella zona. Quegli animali erano cibo per 
								l’accampamento dove non era mai di troppo un 
								supplemento alimentare, che si poteva sottrarre 
								alla popolazione contadina e ai ribelli. Le tre 
								guardie avanzavano con sicurezza; i fucili 
								legati alla cavalcatura. Evidentemente, non 
								sapevano dell’esistenza dei ribelli in quel 
								luogo, o non credevano probabile che ce ne 
								fossero così vicino all’accampamento nemico. 
								Gli 
								uomini di Lalo Sardiñas si trovavano in 
								posizione nel lungo della corsa di Júpiter che 
								sale su per il pendio dell’altopiano. Erano lì 
								da quattro giorni, aspettando da un momento 
								all’altro l’arrivo del battaglione completo 
								accampato a Santo Domingo. Vedendo i soldati a 
								cavallo avvicinarsi, uno dei combattenti di Lalo 
								sparò un colpo. Gli altri ribelli credettero che 
								era il segnale per aprire il fuoco, e 
								cominciarono anche loro a sparare. 
								Le 
								tre guardie, sorprese e spaventate, si girarono 
								e cercarono di scappare. Uno degli animali cadde 
								ferito, ma il soldato saltò a tempo, afferrò il 
								suo fucile e continuò a correre scendendo la 
								collina assieme ai suoi due compagni, fino a che 
								non si persero nelle falde della riva del fiume. 
								Si 
								udivano ancora spari quando nella fila ribelle 
								corse la voce della ritirata. Sembrava che, 
								nella confusione generale, qualcuno pensò che 
								Lalo avesse dato l’ordine. I combattenti 
								cominciarono ad ascendere per il ruscello di Los 
								Mogos e si riunirono a casa del contadino Nando 
								Alba. Lì arrivò loro nel pomeriggio il mio 
								ordine di salire tutti a La Plata. 
								Io 
								ricevetti le prime informazioni su questa 
								sparatoria appena due ore dopo. La prima 
								versione che arrivò a La Plata era magnificata. 
								Lo era a tal punto che alle 11:15 della mattina 
								del 24, in un messaggio a Paz scrissi: 
								
								Abbiamo già dato filo da torcere alle guardie, 
								proprio a Santo Domigo, a casa di Mario 
								(Maguera) e hanno dovuto retrocedere un’altra 
								volta a casa di Lucas. Non abbiamo abbandonato 
								il fiume. 
								
								Tuttavia, poco dopo, l’incidente assunse le sue 
								vere dimensioni. Mi resi conto che si trattò di 
								una sparatoria disorganizzata a una pattuglia di 
								tre guardie a cavallo, che si sprecarono 
								proiettili e non ci si appropriò né di armi né 
								di munizioni. Si svelò, quindi, una posizione 
								senza aver ottenuto niente in cambio. Ma mi 
								accorsi anche che il gruppo ribelle si era 
								ritirato senza giustificazione, a dispetto delle 
								mie costanti esortazioni, nel senso che ogni 
								pollice di territorio doveva essere difeso con 
								le unghie e con i denti, e non poteva essere 
								ceduto fino a quando non restasse alternativa 
								alcuna. L’incidente poteva mandare all’aria 
								l’intero piano dell’accerchiamento che già in 
								quel momento si stava elaborando. Non era, 
								ovviamente, di buon umore che feci cercare Lalo 
								e i suoi uomini. 
								
								Venni poi a sapere che nella Sierra erano famose 
								e temute le mie ire di fronte a qualsiasi 
								manifestazione di incompetenza, indisciplina o 
								negligenza. Suppongo che si sapeva di già che 
								non avevo peli sulla lingua quando mi trovavo 
								davanti al responsabile, anche se, in generale, 
								mezz’ora più tardi stavo scherzando con lui o – 
								come si dice – ammorbidendo il rimprovero. 
								Volevo farli pensare, sprofondare nella loro 
								vergogna, non ferirli; tutti erano assolutamente 
								volontari e i loro sacrifici erano grandi. In 
								questo caso, so che quelli che furono da me 
								ripresi quella volta, tremano ancora al ricordo. 
								Dev’essere perché ero così arrabbiato per 
								l’avvenuto che fui particolarmente duro. 
								Non 
								ricordo in modo esatto tutto quello che dissi ai 
								membri del plotone di Lalo. Mi sembra che il 
								minimo di cui li accusai fu di essere dei 
								“mangia vacche”, un qualificativo molto duro tra 
								i combattenti. Fui sul punto di passare le loro 
								armi ad altri che erano ansiosi di lottare, cosa 
								che costituiva il più duro castigo che si 
								potesse applicare. Ma dissi loro che dovevano 
								tornare alla stessa posizione, e che non 
								potevano permettere ai nemici di passare per di 
								lì, per molti che fossero; che dovevano 
								rafforzare le loro posizioni, e che non potevano 
								retrocedere di un solo passo; se le guardie 
								riuscivano a rompere la difesa per quel luogo, 
								doveva essere perché nessuno di loro era 
								sopravvissuto; quello che fosse salito in 
								ritirata, lo avrei aspettato io con un calibro 
								50 sull’altopiano. Non avevo mai parlato così a 
								nessuno. Che difficile mi risultò mandarli 
								un’altra volta in quel punto critico! 
								
								Aspettavo gli uomini di Cuevas per dare loro il 
								compito, però non erano ancora arrivati. 
								A 
								qualche combattente del gruppo di Lalo si 
								riempirono gli occhi di lacrime di coraggio e 
								vergogna. Altri argomentarono che avevano 
								ricevuto l’ordine di ritirata, ma che erano 
								disposti a tornare in posizione. Dopo un po’, 
								dopo essermi calmato, diedi loro alcuni 
								proiettili e due mine, e li mandai indietro. 
								I 
								fatti posteriori sembrano indicare che quel 
								fortissimo rimprovero compì il suo ruolo. 
								Apparentemente, le mie parole arrivarono nel 
								fondo dell’amor proprio di quei ribelli. I 
								combattenti del piccolo gruppo di Lalo Sardiñas 
								tornarono a occupare le loro posizioni disposti, 
								in effetti, a morire tutti prima di fare un solo 
								passo indietro. Alcuni di loro, addirittura, per 
								quello che venni a sapere più tardi, fecero un 
								giuramento segreto collettivo nel quale si 
								promisero che la volta successiva non ci sarebbe 
								stata nessuna ritirata, anche se venisse dato 
								l’ordine. 
								
								Lalo non occupò esattamente la stessa posizione. 
								Questa volta collocò i suoi uomini chiudendo il 
								cammino del fiume, ai due lati, circa 350 metri 
								più indietro. Nello stesso letto del fiume, dove 
								il cammino entra nell’acqua dallo stesso lato 
								destro di uno degli innumerevoli passaggi del 
								suo serpeggiante percorso, si distribuirono tra 
								le pietre Lalo e la maggior parte dei suoi 
								uomini. Altri si ubicarono tra le ombre ed i 
								tronchi dell’ombroso campo di caffè sulla sponda 
								sinistra. Dall’altro lato, nel campo di caffè 
								sul lato destro, un terzo gruppo chiuse la U 
								dell’imboscata. Pochi metri più dietro della 
								nostra linea, ascende verso la cima de Los Mogos 
								il cammino che si unisce con quello della cima 
								di El Naranjo. 
								
								Sulla punta del percorso di Júpiter, sulla parte 
								sinistra del ruscello, si ubicò la squadra di 
								sette uomini agli ordini di Zenén Meriño, che 
								apparteneva alla truppa di Camilo. La squadra 
								era comparsa giorni prima dalle parti di 
								Agualrevés, e Ramiro me l’aveva inviata a La 
								Plata. Era parte del rafforzamento della zona 
								che io avevo sollecitato, e Camilo la mandò in 
								avanti. Diedi istruzioni di posizionarla in un 
								viottolo che saliva al Comando. 
								
								Dall’altra parte del fiume, all’altezza della 
								casa del contadino Benito García, i combattenti 
								di Lalo Sardiñas collocarono una delle mine il 
								cui funzionamento sarebbe stato affidato a 
								Joaquín La Rosa, dal campo di caffè della sponda 
								sinistra. L’imboscata, così conformata a Pueblo 
								Nuevo, risultava una trappola mortifera. 
								
								Come ho già spiegato, pochi giorni dopo l’arrivo 
								delle guardie a Santo Domingo, cominciammo ad 
								eseguire il piano di accerchiamento di quella 
								truppa. Decisi di applicare la tattica di 
								chiudere e di rendere difficile la situazione 
								del nemico nel suo accampamento, con l’obiettivo 
								di provocare l’invio di rinforzi dal di fuori o 
								un tentativo di rottura dell’accerchiamento dal 
								di dentro. In uno qualsiasi dei due casi il 
								nemico sarebbe stato sorpreso in movimento 
								dall’imboscata convenientemente situata in tutte 
								le vie di accesso o di ritirata.  
								
								Questa era, ovviamente, la tattica che avevamo 
								applicato e perfezionato durante la guerra e che 
								avremmo terminato di definire in tutti i suoi 
								dettagli durante la lotta contro l’offensiva 
								nemica, fino a raggiungere il suo successo più 
								rotondo e la sua esecuzione più pulita nella 
								Battaglia di Jigüe, e verso la fine della guerra 
								nella Battaglia di Guisa. Ma ancora in quel 
								momento, Quevedo non era penetrato dal sud, e le 
								truppe di Las Mercedes e Las Vegas non davano 
								segni di attività. 
								Nei 
								giorni successivi al 20 giugno, come ho già 
								detto, il Battaglione 11 rappresentava il 
								pericolo immediato e più vicino per le posizioni 
								essenziali del territorio ribelle. 
								La 
								mia intenzione iniziale, in effetti, era di 
								dichiarare un accerchiamento in piena regola 
								alle forze nemiche accampate a Santo Domingo, 
								cosa che avrebbe provocato, forse, l’invio di 
								rinforzi da Estrada Palma. Nessun esercito può 
								lasciare abbandonata una truppa alla sua sorte 
								senza correre il rischio della caduta della sua 
								morale combattiva e dei suoi piani. Ciò che si 
								doveva realizzare era di creare linee 
								sufficientemente solide che fossero capaci, nel 
								caso di arrivo dei possibili rinforzi, non solo 
								di fermarli, ma anche di distruggerli e, 
								rispetto alla truppa assediata, di mantenere una 
								pressione apprezzabile che ottenesse la 
								stanchezza e la demoralizzazione del nemico, e 
								stare in condizioni di dare il colpo finale alla 
								posizione accerchiata se le condizioni fossero 
								favorevoli. 
								
								All’altezza del 24, quando avvenne l’incidente 
								delle tre guardie a cavallo, stavamo già facendo 
								i passi per completare l’organizzazione 
								dell’accerchiamento. “Sto pensando ad una 
								chiusura buona” scrissi a Paz in quel giorno. In 
								questo stesso messaggio chiesi al capitano 
								ribelle di inviarmi per il giorno successivo la 
								mitragliatrice calibro 50 di Braulio Curuneaux: 
								
								“(…) per il cui uso ho formidabili posizioni e 
								che può decidere la riuscita del piano”. 
								All’altra calibro 50 si ruppe un pezzo che non 
								si potette aggiustare, ma quella di Curueaux 
								ereditò tutti i proiettili. 
								Le 
								guardie si erano trincerate bene intorno alla 
								casa di Lucas Castillo. Era necessario tirarle 
								fuori dalle loro caverne con il fuoco pesante 
								dell’”artiglieria” ribelle. 
								
								Dalla collina di Sabicú si dominava 
								l’accampamento nemico, a circa 400 metri in 
								linea retta e sotto. Curuneaux si istallò il 26 
								giugno sulla vetta di El Naranjo, 100 metri 
								dietro l’altura di Sabicú. 
								Lo 
								stesso 24 mandai a cercare anche la squadra di 
								Roberto Elías, che controllava il cammino di 
								Palma Mocha più in alto della casa di Emilio 
								Cabrera. Per quel momento si era determinato che 
								non c’erano guardie in quella direzione. La 
								squadra di Elías fu assegnata come rinforzo a 
								Duque nel monte di Gamboa. 
								Il 
								giorno dopo, Camilo arrivò con 40 uomini a El 
								Descanso, e così mi informò: “seguendo le sue 
								istruzioni vado verso Santo Domingo”, mi 
								scrisse, “(…) siamo un po’ lenti, tutti siamo 
								stanchi, gli uomini fanno un grande sforzo, da 
								10 notti non dormiamo (…)”. Devo dire che 
								ricevetti tale notizia con grande allegria. Io 
								sapevo bene che con l’arrivo di Camilo avrei 
								potuto contare su un capo sperimentato, 
								valoroso, responsabile, e con una truppa decisa 
								ed agguerrita la cui partecipazione nel piano di 
								accerchiamento significava un’iniezione di forze 
								importante. “Mi rallegro moltissimo del tuo 
								arrivo”, risposi a Camilo il 27 in un messaggio 
								nel quale gli indicavo che continuasse la marcia 
								fino alla casa di Santaclarero a La Plata dove 
								io mi trovavo in quel momento. E aggiunsi: “Sei 
								arrivato nel momento più opportuno”. Il 27 
								Camilo raggiunse la zona della Jeringa, a due 
								leghe di cammino dalla Plata. Da lì mi scrisse: 
								“Tutti vogliamo che ci dia il luogo nel quale 
								c’è più da combattere e le prometto che non 
								saliranno, a meno che non esauriremo le 
								munizioni, ma sapremo conservarle”. 
								In 
								quello stesso giorno ordinai a Guillermo García 
								di muoversi con tutto il suo personale 
								dall’altura di San Francisco. Una volta lì, 
								avrebbe aspettato l’arrivo di altre forze che 
								stavo riunendo – alcune delle quali dovevo 
								mandare ad Almeida – e di occupare El Cacao. 
								L’intenzione di questo movimento era di tenere 
								Guillermo in posizione di chiudere una delle due 
								vie più probabili di arrivo di rinforzi a Santo 
								Domingo da Estrada Palma. Per l’altra direzione, 
								che era il cammino del fiume, pensavo di 
								utilizzare Camilo, con un’imboscata a Casa de 
								Piedra. 
								La 
								scarsità di forze ribelli in questo settore mi 
								obbligava a ri-pianificare con rapidità la 
								disposizione dei nostri combattenti per 
								l’accerchiamento. All’altezza del 27 giugno, 
								stavo considerando di muovere il personale di 
								Lalo per la zona della Manteca, e coprire le 
								posizioni di Pueblo Nuevo con la gente di 
								Cuevas. A Suñol ordinai di scendere il fiume 
								Yara e di occupare la regione di Leoncito, 
								perché con Camilo in direzione della Casa de 
								Piedra – verso dove pensavo di muovere anche 
								Duque – non sembrava essere necessaria la 
								presenza di quel personale sulla salita di El 
								Cristo. Con questi movimenti, l’accerchiamento 
								di Santo Domingo sarebbe rimasto quasi 
								totalmente conformato. 
								
								Tuttavia, come dimostrazione della fluida 
								situazione generale in quei giorni finali di 
								giugno, quello stesso 27 si produsse la 
								penetrazione da parte della truppa nemica 
								stazionata a Las Vegas de Jibacoa fino a Taita 
								José, con la quale – come si vedrà in dettaglio 
								in un capitolo posteriore – le guardie non solo 
								potevano fiancheggiare le posizioni di Suñol e 
								avanzare in direzione della Corea e la cima 
								della Maestra all’altezza del negozietto, ma 
								sarebbero anche rimaste minacciate dalla 
								retroguardia le posizioni occupate a Casa de 
								Piedra. Per questa ragione, Suñol dovette 
								mantenersi nel Cristo in attesa. 
								
								Guillermo, capo sperimentato, arrivò all’altura 
								di San Francisco il 28 giugno. Immediatamente 
								dispose che una delle sue squadre continuasse 
								per El Cacao, mi informò di questo movimento e 
								si mantenne in attesa dei miei ordini. 
								Io 
								avevo fatto cercare la squadra di Reinaldo Mora, 
								che era nel Confín, e che pure aspettava 
								l’arrivo del personale che doveva inviare 
								Almeida. Quel giorno, tuttavia, gli eventi 
								precipitarono. 
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