| 
                              
                              La vittoria 
                              strategica 
                              La retroguardia ribelle
 (Capitolo 15)
 
 Fidel Castro 
                              Ruz
 
								
								È obbligato dedicare, in queste riassunto della 
								grande offensiva nemica, un capitolo sul 
								funzionamento del dispositivo di retroguardia 
								della nostra azione  militare, perchè la sua 
								attività fu, senza dubbio, una delle ragioni  
								della nostra vittoria. 
								
								 Ho già detto prima che nel lavoro della 
								retroguardia fu decisivo il ruolo disimpegnato 
								da Celia. Grazie a lei e ai suoi collaboratori, 
								io potevo evitare d’occuparmi molte volte di 
								quei mille  dettagli  che coadiuvavano un 
								miglior  disimpegno delle nostre unità nel piano 
								militare, e concentrare la mia attenzione negli  
								aspetti strategici e tattici delle operazioni. 
								
								Un problema essenziale che il nostro apparato di 
								retroguardia doveva risolvere, forse  il più 
								importante, era  garantire i rifornimenti  
								necessari per appoggiare sia l’azione  militare, 
								con armi, munizioni ed altri strumenti della 
								guerra, come con gli  alimenti e altri beni, 
								come vestiti, calzature ed altro. 
								
								Nel caso delle armi, non era tanta la mia 
								preoccupazione. La vita e l’esperienza della 
								lotta nella Sierra avevano dimostrato e lo 
								facevano ancora nella maniera più chiara durante 
								l’ offensiva, che il principale fornitore di 
								armi di ogni  tipo era il nemico, a cui le 
								prendevamo nei combattimenti.  
								
								Dopo le azioni della prima Battaglia di Santo 
								Domingo, incrementammo in maniera considerevole 
								il nostro arsenale, di nuovo accresciuto in modo 
								sostanzioso dopo la vittoria di Jigüe e nelle 
								azioni  finali della nostra controffensiva. No 
								era, quindi, l’ottenimento  delle armi,  un tema 
								di  priorità per la nostra retroguardia. 
								
								Nonostante questo, dato che qualsiasi aiuto in 
								questo senso non era mai di troppo, non smisi 
								mai d’insistere con le nostre organizzazioni 
								all’estero perchè continuassero negli sforzi per 
								ottenere armi e munizioni.  
								
								Pensando al ricevimento di quelle che sarebbero 
								giunte per questa via, avevamo abilitato la 
								pista aerea chiamata Alfa, nel fiume  
								
								La Plata. Incluso,  
								giunsi ad avvertire che nel caso in cui Alfa 
								fosse stata occupata dall’Esercito della 
								tirannia, esisteva sempre la possibilità di 
								continuare gli invii di armi con paracadute, in 
								qualche punto della montagna non dominato dal 
								nemico. La realtà fu che per tutta l’offensiva 
								non ricevemmo nessun altro invio di armi 
								dall’estero. Furono sufficienti quelle che 
								conquistammo in combattimento.  
								
								In senso generale, non era  una grande  
								preoccupazione nemmeno l’ottenere le munizioni, 
								perchè il nostro principale fornitore era sempre 
								il nemico. Senza dubbio, per me, era sempre 
								fondamentale la questione del risparmio delle 
								pallottole. In tutte queste pagine abbiamo visto 
								l’importanza che io attribuivo  al tema del 
								risparmio delle munizioni e la gran irritazione 
								che mi produceva lo spreco, con l’suo esagerato 
								e inutile che, in occasioni, realizzavano alcuni 
								combattenti. 
								
								Il 5 giugno, per esempio, scrissi a Celia: 
								
								“Credo che i piani di difesa siano abbastanza 
								avanzati. Il problema che mi preoccupa 
								maggiormente, oggi come oggi, è che  la gente 
								non si rende conto che si tratta di un piano di 
								resistenza continua e scaglionata, e che non si 
								possono sparare in due ore  le pallottole che 
								devono durare  un mese. L’unica cosa  che mi 
								resta da fare è custodire bene quelle che mi 
								restano e non dare più nemmeno una pallottola, 
								sino a che non sia questione di vita o di morte, 
								perchè realmente non è restata più  nemmeno una  
								pallottola.  Ricordi il giorno che  andavamo da  
								Horacio [Rodríguez] nel secondo giorno  del 
								combattimento a Mercedes, che sentimmo il  fuoco 
								dei fucili? Bene: in quei  15 minuti solamente, 
								Raúl Castro [Mercader] tirò 80 colpi con il suo 
								fucile. 
								
								Io non mi stanco d’insistere su questo problema 
								che è realmente il nostro tallone d’ Achille”.
								 
								
								A tale punto giungeva la  mia ossessiva 
								attenzione al tema, che determinai di  creare a
								
								
								La Plata 
								una riserva centrale di munizioni gestita 
								personalmente da me. 
								
								Una delle  funzioni eseguita da Ramiro durante 
								buona parte dell’offensiva fu fare 
								l’amministratore  di quella riserva, con le 
								istruzioni  precise di non consegnare  niente 
								senza la mia autorizzazione. Quella mia 
								taccagneria  non veniva compresa da tutti i capi 
								 subalterni, ma molti altri, come il Che, erano  
								coscienti che quell’estrema  austerità nel caso 
								dell’uso delle munizioni, era una politica 
								necessaria. 
								
								In queste pagine ho citato la preoccupazione che 
								al rispetto manifestava, per esempio, Braulio 
								Curuneaux, che con frequenza mi mandava un 
								rapporto sulla quantità esatta di pallottole  
								usate in un combattimento e, con molta 
								precisione, su quante gli restavano.  Con tutto 
								che Curuneaux, anche se era un magnifico 
								combattente e maestro nell’uso razionale ed 
								efficace  della mitragliatrice  calibro 50, la 
								nostra unica "artiglieria" sino a quando non 
								conseguimmo mortai e bazooka  in poche contate 
								occasioni, no fu esempio di risparmio stretto 
								delle munizioni della  sua arma. 
								
								Dove doveva brillare la nostra retroguardia era 
								nel garantire altri rifornimenti, soprattutto 
								quelli alimentari. 
								
								Ho già detto che in previsione dell’offensiva, 
								avevamo creato nel quartiere di Jiménez, vicino 
								a La Plata, nella fattoria del collaboratore 
								Radamés Charruf, una fabbrica di carne salata. 
								La fabbrica di “tasajo” di  Jiménez, directa dal 
								combattente Gello Argelís, funzionò durante 
								tutta l’offensiva, anche durante la penetrazione 
								dal Sud, del Battaglione 18, che condusse il 
								nemico molto vicino a Jiménez. Mediante una 
								costante selezione  ed il trasporto del 
								bestiame  sotto i bombardamenti  e le 
								mitragliatrici dell’aviazione nemica, la 
								produzione ed il rifornimento  di carne salata 
								per le  nostre forze in prima linea di 
								combattimento non mancò mai. 
								
								Lo stesso si può dire per la produzione del 
								formaggio, organizzata da Celia in diversi punti 
								del territorio, e della sua distribuzione tra i 
								nostri combattenti. Un esempio della fiammante 
								produzione di latte si nota in questo messaggio 
								inviato da Celia il 12 luglio, dall’altura di 
								Cahuara, a Ramón Paz, che in quel momento era  
								posizionato a Purialón, aspettando l’arrivo dei 
								rinforzi che dovevano andare a soccorrere  la 
								truppa nemica situata dal giorno prima a Jigüe: 
								
								“Il Comandante le manda questo formaggio e delle 
								sigarette, per lei e  Orestes [Guerra]. Anche se 
								sappiamo che lì si riforniscono  malamente come 
								qui, tiriamo avanti ugualmente. Vogliamo 
								condividere il primo formaggio della nostra 
								produzione...”  
								
								Anche nei giorni della Battaglia di Jigüe, 
								sempre a proposito del latte, quest’altro 
								 illustrativo messaggio di Celia per  Curuneaux, 
								che in quel  momento era in prima linea di 
								combattimento nell’accerchiamento della truppa 
								assediata in quel luogo: 
								
								“Ho mandato del latte per lei e per la guardia 
								ferita, per lei due (lattine). Qui mi restano 
								tre lattine che ho messo da parte, una per lei 
								domani e due per i feriti; questo per 
								assicurarlo, perchè ho mandato a cercare il 
								latte e dovrebbero portarlo questo pomeriggio. 
								In questo caso domani ne manderò di più. Ma se 
								non dovesse arrivare, comunque, ho una lattina 
								separata.”    
								
								Grazie all’amministrazione di Celia e al suo 
								maneggio rigoroso e organizzato dei 
								rifornimenti, le nostre scarsissime  risorse 
								 furono distribuite in accordo con le priorità 
								di ogni momento. 
								
								E già che  ho parlato delle lattine di latte 
								condensato, devo dire che tra le nostre limitate 
								scorte questo era uno degli articoli che 
								riceveva un trattamento speciale.  Il 
								latte 
								
								condensato, per le sue caratteristiche 
								 energetiche e il suo sapore molto apprezzato, 
								era per noi, un prodotto di lusso, e la sua 
								distribuzione si eseguiva seguendo le mie 
								personali indicazioni. Un esempio: in previsione 
								della dura camminata che gli uomini di Lalo 
								 Sardiñas avrebbero dovuto realizzare dai 
								dintorni di Santo Domingo - quando  ordinai a 
								Lalo di trasferirsi  senza perdita di tempo, a 
								Meriño, per completare l’accerchiamento  delle 
								truppe che erano penetrate in questo luogo -  
								inviai a Celia l’indicazione precisa di 
								consegnare ad ognuno degli uomini del plotone di 
								Lalo due lattine di latte  condensato. Senza 
								quella mia indicazione  personale, zero latte 
								condensato per gli abnegati combattenti del 
								plotone di Lalo. 
								
								Un altro prodotto strategico che la nostra 
								retroguardia doveva  assicurare era il 
								
								sale. 
								
								Era necessario, non solo per il consumo normale 
								delle nostre truppe, ma anche per  il 
								funzionamento della fabbrica di carne secca ed 
								anche per l’attività di una piccola  fabbrica di 
								cuoio che eravamo riusciti  ad installare. Come 
								si ricorderà, in previsione dell’offensiva, 
								Celia aveva  organizzato una produzione  
								sufficiente di sale in vari punti della costa. 
								Alcune di quelle  saline artigianali, vicine 
								alle foci dei fiumi   La 
								Plata e Palma Mocha, le dovemmo abbandonare per 
								via dello sbarco del Battaglione  18 nella zona, 
								ma altre,  come quelle di Ocujal, 
								
								La Magdalena, 
								El Macho e El Macío, si mantennero in funzione 
								 durante tutta l’offensiva, e soddisfarono le  
								nostre necessità di base. Fu un’altra prodezza 
								della retroguardia. 
								
								Senza dubbio, non sempre le cose funzionarono 
								come  desideravamo. La mobilità richiesta per 
								poter seguire perfettamente lo sviluppo delle 
								operazioni o dirigerle,  come nel caso della 
								batatglia di  Jigüe, supponeva, dal punto di 
								vista delle condizioni materiali che 
								riguardavano il  dispositivo del Quartier 
								Generale  ribelle, un ritorno, in occasioni, a 
								situazioni caratteristiche dei  primi mesi della 
								guerra. Questo fu più evidente che mai durante 
								gli 11 giorni in cui rimasi nelle alture di 
								Cahuara, conducendo l’operazione di Jigüe. Lì 
								dovemmo improvvisare un Posto di Comando più o 
								meno permanente nella montagna; creare 
								condizioni minime per il funzionamento del Posto 
								di Comando e per il rifornimento della sua 
								cucina e  degli uomini che partecipavano 
								all’accerchiamento del  Battaglione 18. Una 
								mostra dei piccoli e grandi problemi  quotidiani 
								durante quei giorni, la offre Celia in questo 
								messaggio inviato da Cahuara a Delsa Puebla, 
								“Teté”, per tutti  noi, a Mompié, il primo 
								giorno della Battaglia  de Jigüe: 
								
								“Telefona a Camilo [a La Plata] e digli che mi 
								mandi  una delle  scatole di sigari di Fidel che 
								ci sono lì, e che cerchi di vedere  Gello 
								[Argelís] che verrà qui perchè la porti. Qui sia 
								Fidel che il  Che non hanno sigari. Il Ché lo 
								chiami [a Minas de Frío] e gli dici che Fidel è 
								rimasto con un sigaro solamente e che a lui ne 
								ho mandati due, e che ne ho chiesti a Camilo e 
								quando mi arriveranno, li manderò”. 
								
								In quello stesso  messaggio, Celia si riferiva 
								anche ad altri problemi più seri di questo dei 
								sigari: 
								
								[…] stanotte ci siamo bagnati tutti, come le 
								mercanzie ed anche le munizioni. 
								
								Siamo  accampati in montagna ed è piovuto dal 
								pomeriggio sino al sorgere della luna. Ho 
								chiesto nylon ( cappe di protezione NdT.) e 
								scarpe il giorno prima di lasciare  Mina; spiega 
								a Camilo la necessità che abbiamo perchè si 
								sbrighi e li mandi. Abbiamo passato due giorni 
								senza mangiare, dato che qui non avevamo 
								niente;ricordando tempi che non sono passati, si 
								allontanano, ma ritornano. Ho preso una forte 
								influenza”.   
								
								Stanotte la pioggia è caduta sul Posto di 
								Comando. 
								
								Una delle conseguenze dello stretto blocco  
								imposto alla Sierra Maestra dal nemico, come 
								parte della sua offensiva, è stato che non 
								riceviamo più i contributi in denaro che ci 
								inviavano dal piano, denaro che proveniva dalle 
								donazioni di proprietari terrieri, imprenditori, 
								commercianti e da altre fonti, oltre che dagli 
								stessi militanti clandestini del Movimento. 
								Questo era il denaro che si utilizzava per 
								pagare scrupolosamente tutte le merci che 
								compravamo ai contadini, soprattutto tuberi e 
								prodotti alimentari. 
								
								Senza 
								
								dubbio, nonostante le consegne gratuite 
								spontanee realizzate da molti abitanti del 
								teatro del operazioni, abbiamo rapidamente 
								trovato alcune alternative per supplire la 
								mancanza di denaro.  Un esempio si evidenzia 
								nel  messaggio che  mi inviò Ramiro il 28 
								
								maggio dalla  Colonna 4: 
								
								“Ho autorizzato un uomo responsabile e serio per 
								parlare con i coltivatori di caffè di  un’estesa 
								zona per ricavare fondi. L’esercito minaccia 
								questa zona ed è propizio il momento per la 
								gestione, perchè loro si aspettano una 
								protezione. Ho dato istruzioni all’inviato  
								perchè coltivatori di caffè non pensino che i 
								loro apporti economici siano un pagamento di 
								questa nostra protezione. Se hai qualche piano 
								per la prossima raccolta del caffè, fammelo 
								sapere per metterlo in pratica.  Ho gia ricevuto 
								la risposta ad una delle mie gestioni: $2.000 di 
								credito in un magazzino di Bayamo; ed è già 
								partito il primo invio di merci”. 
								
								Fattore di grande importanza, e molte volte 
								determinante del nostro successo  nelle azioni 
								intraprese dalle  forze ribelli  durante 
								l’offensiva, fu il ruolo svolto dai messaggeri 
								ribelli.  
								
								In queste pagine abbiamo visto e continueremo a 
								vedere  numerose occasioni in cui fu possibile 
								prendere a tempo decisioni cruciali per 
								garantire il successo  di un’operazione 
								determinata, grazie alla rapidità  ed efficienza 
								con cui i  nostri messaggeri trasmettevano gli 
								ordini e le indicazioni pertinenti, o mi 
								facevano giungere le informazioni inviate dai 
								capi sui fronti di combattimento. 
								
								Ho gia spiegato nel capitolo riferito i 
								preparativi per la difesa del nostro territorio 
								e che, in previsione dell’offensiva, avevamo 
								stabilito le comunicazioni telefoniche tra La 
								Plata, la botteghina  della Maestra e Compié, 
								ma  già durante la piena offensiva la linea fu 
								estesa sino a Minas de Frío, grazie al bravo 
								sforzo del gruppo incaricato di quella. 
								
								Quella era tutta la copertura della nostra rete 
								telefonica che, nonostante i suoi limiti, fu 
								molto utile in varie occasioni. 
								
								In cambio, il nemico aveva a sua disposizione 
								tutti i mezzi di comunicazione senza fili 
								esistenti in quel momento, e soprattutto tutti 
								gli strumenti a microonde, che assicuravano una 
								comunicazione immediata tra le sue differenti 
								unità, e tra queste  il posto di comando di 
								Bayamo o gli posti avanzati a Estrada Palma, 
								Cerro Pelado, Cienaguilla ed altri punti. Noi 
								indubbiamente dovevamo dipendere dall’abilità, 
								l’astuzia e la resistenza fisica dei nostri 
								messaggeri, capaci di percorrere lunghe distanze 
								sulle  montagne, quasi sempre a piedi, in un 
								tempo incredibilmente breve. 
								
								Molte volte i messaggi li portava un combattente 
								scelto dal capo di una delle nostre squadre o 
								plotone, con quelle caratteristiche che ho 
								appena descritto. Però in generale, nel caso 
								dei  messaggi che io inviavo da dov’era 
								installato in un momento determinato il mio 
								posto di comando transitorio o semplicemente da 
								dove mi trovavo in quella occasione, il nostro 
								scambio di messaggi era realizzato da un gruppo 
								scelto di combattenti, la cui funzione era 
								quella di fare i messaggeri. Tra tutti loro, 
								forse, il più affidabile per la sua rapidità e 
								responsabilità, fu lo spiritoso  Juan Pescao, 
								già menzionato in queste pagine. Altri nomi che 
								non posso  tralasciare di citare sono Edilberto 
								González Rojas ed Eliécer Tejeda Peña, tutti e 
								due subordinati di  Remigio Álvarez Figueredo, 
								che era capo di quel picolo gruppo di messaggeri 
								al servizio del  Comando. 
								
								Con loro e con altri, il nostro Esercito Rebelde 
								ha un enorme debito di gratitudine. Forse molti 
								non hanno mai sparato un solo tiro nè hanno 
								partecipato ad un combattimento, ma tutti 
								meritano il massimo riconoscimento della loro 
								condizione di combattenti, perchè anche loro 
								contribuirono decisamente alla nostra vittoria. 
								
								Non va dimenticato nemmeno il lavoro sviluppato 
								dai nostri conduttori di muli responsabili  del 
								trasporto di ogni genere di  mercanzia, 
								includendo in occasioni  armi, munizioni ed 
								altri strumenti di guerra. 
								
								Era un lavoro di grande responsabilità e pieno 
								di pericoli, perchè in qualsiasi momento quelle 
								file generalmente accompagnate da uomini 
								disarmati potevano cadere in un’imboscata nemica 
								od essere bersaglio di un attacco aereo. Ricordo 
								ora il nome di Eduardo Rodríguez Vargas, Pipe, 
								conduttore di fiducia di Celia, che per la sua 
								intima conoscenza di tutti gli angoli della 
								montagna, anche dopo il trionfo della 
								Rivoluzione,  prestò un impagabile servizio come 
								guida del gruppo degli investigatori storici che 
								con il loro lavoro minuzioso contribuirono a 
								ricostruire la storia della Sierra alla quale mi 
								sono riferiti per la redazione di queste 
								pagine.   
								
								Una menzione speciale in questo riscontro lo 
								meritano i medici ribelli. 
								
								In 
								condizioni terribilmente precarie, a volte senza 
								nemmeno le minime risorse necessarie, 
								realizzarono vere prodezze. I feriti, sia i 
								ribelli come le guardie nemiche catturate dopo 
								un combattimento, ed anche bambini ed altri 
								abitanti della montagna,, dovevano la loro vita, 
								in molte occasioni all’impegno assoluto ed 
								efficiente dei medici che prestavano servizio 
								nelle nostre fila. 
								
								Dottori come René Vallejo, Manuel Piti Fajardo, 
								Julio Martínez Páez, Bernabé Ordaz, Vicente de 
								la O, Sergio del Valle, Fabio Vázquez, Raúl 
								Trillo e il dentista Luis Borges Alducín, tra 
								gli altri, non si possono non nominare in queste 
								pagine. Molti di loro, come Vallejo, Piti 
								Fajardo e De la O, realizzarone, in varie 
								opportunità, funzioni d’appoggio alla nostra 
								azione, estranee alla loro professione di 
								medico. 
								
								Nel  teatro delle operazioni dell’offensiva nel 
								Primo Fronte funzionavano solamente due 
								installazioni che si potevano  considerare come 
								ospedali fissi di campagna: quello di  Pozo 
								Azul, diretto dal dottor Vallejo, che in un 
								momento determinato fu trasportato nella zona di 
								Limones, di fronte alla minaccia d’occupazione 
								di una truppa nemica, che giunse sino ad 
								Aguacate, a circa cinque chilometri di distanza; 
								e quello di La Plata, 
								stabilito  prima a Camaroncito, diretto dal 
								dottor Martínez Páez, vicino al fiume 
								
								La Plata, 
								che dovette cambiare luogo quando il fiume in 
								piena lo minacciò severamente e fu allora 
								ubicato a Rincón Caliente, a mezza strada tra il 
								Comando  e il villaggio di  Jiménez. A partire 
								dal mese di giugno, questo Piccolo ospedale  fu 
								trasferito dov’era il Comando Generale e lì 
								funzionò durante l’offensiva, in installazioni 
								provvisorie ed in cui prestarono i propri 
								servizi, tra gli altri, a parte Martínez Páez, i 
								dottori Ordaz, Fajardo, De la O e 
								
								Trillo. 
								
								Nel  Comando di 
								
								La Plata 
								si conserva ancora quel bell’ospedale costruito 
								dopo l’ offensiva come installazione permanente, 
								ed il rustico locale che serviva  da  gabinetto 
								dentistico del dottor Borges Alduncín. A parte 
								questi ospedali, il lavoro dei nostri medici si 
								realizzava principalmente nello stesso campo di 
								battaglia. 
								
								Tra le attività della retroguardia, una menzione 
								a parte la meritano le donne. In quell’epoca non 
								era ancora sorta l’idea della creazione di un 
								plotone femminile che fu formato nel mese di 
								settembre, dopo l’offensiva, costituito per una 
								mia iniziativa, contro l’opinione di alcuni: il 
								Plotone Mariana Grajales. 
								
								Le donne presenti nelle nostre 
								fila durante l’offensiva, molte delle quali 
								integrarono più tardi  il plotone delle Mariane, 
								disimpegnarono in quell’epoca funzioni 
								d’appoggio  di ogni tipo, come assistenti dei 
								medici, messaggere, cuoche, aiutanti in compiti 
								di rifornimento, riparatrici di uniformi e 
								scarpe, sentinelle. Insomma, prestarono preziosi 
								e variati servizi. 
								
								Esemplare fu il lavoro d’assistente di Celia 
								realizzato da Teté Puebla, che, inoltre, come 
								vedremo nel suo momento, desimpegnò con 
								efficacia la delicata missione d’essere 
								l’emissaria inviata dal Che all’accampamento 
								nemico a  Vegas de Jibacoa per negoziare i 
								dettagli della consegna  dei prigionieri 
								 nemici, effettuata il 23 luglio, ancora in 
								piena battaglia contro l’offensiva. 
								
								Altre donne molto capaci in quella tappa  furono 
								Rita García ed Eva Palma, sopravvissute 
								miracolosamente al colpo di  mortaio che uccise  
								Geonel Rodríguez, Orosia Soto e Juana Peña, 
								aiutanti dei  medici, Olga Guevara, Angelina 
								Antolín e Ada Bella Pompa. 
								
								Un ruolo  decisivo, come parte della nostra 
								retroguardia durante l’offensiva, corrispose  a 
								Radio Rebelde. L’emittente che, come si 
								ricorderà, fu trasferita al finale d’aprile da 
								Pata de la Mesa, nella zona del Che, verso La 
								Plata, funzionò durante i 74 giorni  di 
								combattimento come veicolo d’informazione per 
								gli altri fronti ribelli, per i combattenti 
								della clandestinità  nel piano e per tutto il 
								popolo su quello che   accadeva ogni giorno 
								sulle montagne della  Sierra. 
								
								Quasi ogni giorno, Radio Rebelde trasmetteva  un 
								comunicato  di guerra, molte volte scritto da 
								me, sullo sviluppo e sui risultati  delle azioni 
								combattive. Per quella  via i suoi ascoltatori, 
								dentro e fuori da Cuba, ricevevano 
								un’informazione assolutamente autentica su 
								quello che avveniva e potevano smentire così le 
								falsità, le esagerazioni, le omissioni e la 
								disinformazione diffuse dai mezzi della 
								propaganda dell’esercito nemico.   
								
								A quel lavoro di Radio Rebelde parteciparono, in 
								maniera decisiva: Luis Orlando Rodríguez, 
								direttore titolare dell’emittente; il tecnico 
								principale Eduardo Fernández, assistito da 
								Orlando Payret, Luis González e Otto Suárez, 
								che  furono capaci di mantenere le trasmissioni 
								dell’emittente che funzionava con regolarità, 
								nonostante tutte le difficoltà; l’assistente 
								Alicia Santacoloma, stenografa ed editrice; i 
								presentatori Jorge Enrique Mendoza, Orestes 
								Valera, Ricardo Martínez e Violeta Casals, che 
								con le loro voci divennero gli esponenti 
								emblematici della lotta dei ribelli. 
								
								A proposito dei presentatori, tra le carte si 
								conserva  questa nota mia per Orestes Valera, 
								che includo in queste pagine per mostrare 
								l’attenzione  minuziosa con cui io seguivo il 
								lavoro di Radio Rebelde, precisamente per 
								l’importanza che le concedevo, anche se avevamo 
								già un futuro traditore, Carlos Franqui, che 
								dopo aver disertato dal Partito Comunista - 
								allora PSP- fu erroneamente captato dal 
								Movimento 26 di Luglio, e risultò poi, in 
								realtà, un transfuga e ambizioso che cercava di 
								seminare  la zizzania 
								
								dell’anticomunismo nelle nostre fila: 
								
								“Orestes: stai usando un tono ed un’enfasi per 
								radio simili a quelli di Díaz Balart [Rafael 
								Díaz Balart, principale portavoce del regime 
								batistiano]. Non ti offendere per questo. Voglio 
								solo che cerchi di superarlo. Tu sai che 
								declamare è un’arte. Tu hai una voce sonora ed 
								una buona dizione, ma poni un’enfasi da “gente 
								arrogante” alle frasi. Ricardo [Martínez] parla 
								in modo più amabile anche se meno energico. Mi 
								pare che  sia perfetto per le nostre 
								trasmissioni  un tono amabile e un’enfasi 
								energica. Lo potremo conseguire? Ieri mi è 
								piaciuta di più la lettura di Ricardo. 
								
								Sforzati! Quando ci sono le condizioni, tutto è 
								questione di volontà”. 
								
								Un’altra funzione cruciale di Radio Rebelde fu 
								quella di servire da vincolo con l’estero, 
								specialmente con i nuclei dell’esilio 
								rivoluzionario negli Stati Uniti, in Venezuela 
								ed in  altri paesi americani. Per quella via 
								conoscevamo, tra le altre  informazioni 
								d’importanza, l’arrivo di qualche carico di armi 
								e munizioni, come quello che arrivò con l’aereo 
								che  atterrò il 10 maggio sulla nostra 
								improvvisata pista aerea lungo il fiume La 
								Plata, alla foce  del ruscello Manacas, che 
								avevamo battezzato con il nome in chiave di 
								Alfa. Già dal giorno precedente io avevo il 
								sospetto che sarebbe giunto presto un aereo, 
								perchè mi avevano  domandato attraverso Radio 
								Rebelde se Alfa era pronta, ed io avevo risposto 
								affermativamente. 
								
								Nei primi giorni dell’offensiva nemica c’erano 
								problemi nella comunicazione in chiave mediante 
								Radio Rebelde. Accadde quello che avevo sempre  
								temuto e che avevo avvisato in varie occasioni, 
								cioè che all’ora di decifrare alcuni messaggi 
								non contavamo con la chiave adeguata. Avvenne 
								con  un messaggio importante che si doveva 
								decodificare mediante due libri ed una penna che 
								dovevano giungere da Santiago di Cuba. 
								
								Nessuno 
								
								mi diede una spiegazione  Della destinazione dei 
								libri e dovetti rispondere  che era impossibile 
								decifrare il messaggio per la mancanza degli 
								elementi necessari.  
								
								Un altro messaggio giunto  da Miami, con una 
								chiave numerica che il Che dominava, lo dovetti 
								inviare a  Minas de Frío perchè lui lo leggesse 
								e gli dovetti chiedere di mandare qualcuno di 
								ritorno, per spiegarmi il funzionamento di 
								quella chiave.  
								
								Ma, a parte questi problemi occasionali, la 
								comunicazione con l’estero funzionò abbastanza 
								bene durante l’offensiva grazie  a Radio 
								Rebelde. 
								
								Un buon esempio di quello fu l’intervista di più 
								di un’ora di durata che concessi al principio di 
								luglio ad un gruppo di giornalisti  venezuelani. 
								
								Va ricordato che il popolo del Venezuela si era 
								appena liberato dalla brutale dittatura di 
								Marcos Pérez Jiménez. Di quella lunga 
								intervista  mi sembra opportuno citare il 
								seguente frammento: 
								
								“I venezuelani e noi cubani ci comprendiamo 
								bene, perche tutti e due conosciamo il dolore 
								dell’oppressione ed il prezzo della libertà. 
								Dopo il cubano, il popolo che mi emoziona di più 
								in questi istanti, è quello del  Venezuela. 
								
								La profonda ammirazione che sento verso questo 
								paese, dov’è nato il più grande uomo di questo 
								continente, si accresce con lo straordinario 
								esempio di civismo che ha appena dato al mondo, 
								quando molti credevano lontano il giorno del suo 
								bel risveglio”. 
								
								All’ammirazione si unisce la gratitudine per 
								l’ospitalità che incontrano lì i perseguitati 
								politici cubani, l’attenzione che ricevono nella 
								stampa già libera del Venezuela, le notizie che 
								non può pubblicare la stampa con la museruola di 
								Cuba ed il dolore che prova questo popolo 
								fratello come se le nostri fossero le loro 
								sofferenze.  
								
								E alla gratitudine si unisce la speranza: la 
								speranza che il Venezuela vada avanti per il 
								cammino che si è tracciato, e la speranza che ci 
								aiuti  con lo stesso spirito con cui Bolívar 
								aiutò altri popoli oppressi, per cercare 
								nell’unione delle nazioni libere dell’America 
								Latina, la solidarietà e la forza che ci 
								potranno preservare dai gravi pericoli della 
								debolezza, la divisione, la tirannia e il 
								colonialismo”. 
								
								In quella stessa intervista, indubbiamente , 
								dissi quanto segue in relazione al tentativo di 
								sciopero  del 9 aprile di quell’anno: 
								
								La mobilitazione del popolo per lo sciopero ha 
								una tecnica propria alla quale ci si deve 
								aggiustare,  che va contro il segreto, il rigore 
								e la sorpresa che esigono le azioni  armate. 
								Mentre il successo di un’azione  armata può  
								dipendere da molti fattori imponderabili, la 
								mobilitazione del popolo, quando esiste la 
								coscienza rivoluzionaria, maturata con metodi 
								corretti è infallibile e non dipende da 
								eventualità. 
								
								Lo sciopero generale aveva uno straordinario 
								ambiente, ma il Comitato dello Sciopero commise 
								l’errore fondamentale di subordinare la 
								mobilitazione delle masse all’azione a sorpresa 
								delle milizie armate. Alla sicurezza di queste 
								azioni a sorpresa fu sacrificata la 
								mobilitazione del popolo[...] 
								
								Lo sciopero è l’arma più formidabile del popolo 
								nella lotta rivoluzionaria e la lotta armata si 
								deve subordinare a questo. Non si può portare il 
								popolo ad una battaglia, come non si può portare 
								un Esercito se non lo si  mobilita adeguatamente 
								per l’istante dell’azione, e questo accadde il 9 
								aprile. […] L’errore non si ripeterà. 
								
								Allo sciopero generale non abbiamo rinunciato, 
								come arma decisiva di lotta contro la tirannia”. 
								
								Uno degli intervistatori venezuelani mi chiese, 
								riferendosi all’offensiva nemica in pieno 
								sviluppo se “ di fronte al brusco giro degli 
								avvenimenti  era vero che avevo pensato di 
								abbandonare 
								
								la Sierra Maestra".
								 
								
								Questa fu la mia risposta: 
								
								“L’ Esercito Ribelle non abbandonerà mai le sue 
								posizioni sulla Sierra Maestra se non per 
								avanzare sul resto del territorio nazionale. 
								
								La morte o la vittoria sono le uniche 
								alternative che accettiamo. Senza libertà e 
								senza Patria, nessuno di noi ama vivere. L’idea 
								d’abbandonare 
								
								la Sierra Maestra 
								non mi ha tentato nemmeno  quando mi vidi con 
								tre uomini e due fucili. 
								
								Con questo spirito si è forgiata la coscienza 
								dei nostri combattenti. 
								
								Abbiamo appreso a lottare contro l’impossibile. 
								Qui morirà gloriosamente, se sarà necessario dal 
								primo all’ultimo ribelle. La Patria non si 
								abbandona per salvarsi la vita. Un esempio vale 
								sempre più di un uomo. 
								
								Gli intervistatori venezuelani toccarono molti 
								altri temi d’interesse, tra i quali il cruciale 
								tema dell’unità e i piani di un futuro governo 
								rivoluzionario, ma non voglio allungare 
								eccessivamente questo capitolo dedicato al ruolo 
								della retroguardia ribelle 
								durante l’offensiva. 
								
								Mi resta da segnalare, per ultimo, che anche in 
								piena offensiva cominciarono a programmarsi le 
								basi dell’apparato amministrativo che, infine, a 
								partire dal mese di settembre, fu costituito nel 
								Comando di La Plata 
								con il nome di Amministrazione  Civile del 
								Territorio Libero (ACTL), al fronte del quale 
								restò Faustino Pérez sino al finale della 
								
								guerra. 
								
								Quell’amministrazione  si dedicò al necessario 
								maneggio della vita economica e sociale della 
								montagna ribelle, un vasto territorio 
								definitivamente liberato, la cui popolazione 
								mancava quasi di tutto in assoluto, e giunse ad  
								essere integrata da otto dipartimenti incaricati 
								dei temi agricoli e contadini, dell’educazione, 
								la salubrità e l’assistenza sociale, la 
								giustizia, la promozione, le industrie, le opere 
								pubbliche, i rifornimenti e le finanze. Aspetti 
								rilevanti del suo lavoro furono l’assistenza 
								medica, la scolarizzazione, l’alfabetizzazione, 
								lo sviluppo delle  infrastrutture per produrre 
								alimenti e la creazione  di non meno di 35 
								cooperative contadine. 
								
								Così come  le istituzioni create da Raúl nel 
								Secondo Fronte, l’organizzazione civile 
								sviluppata nella Sierra Maestra nei mesi finali 
								della guerra elevò a un piano superiore le 
								relazioni esistenti, dall’inizio della lotta 
								nella montagna, tra l’Esercito Ribelle e i 
								contadini, e costituì la semente del nuovo Stato 
								che sarebbe sorto dopo il trionfo 
								rivoluzionario, fedele allo spirito democratico 
								e popolare della Rivoluzione.
 |