Se ne è andato da questo mondo
Gabriel García Márquez
• Probabilmente il più
prestigioso scrittore del XX secolo.
Gianni Minà
Aveva praticamente imposto, nella letteratura
del nostro tempo, un nuovo stile e un nuovo modo
di raccontare. Questo stile ha avuto molti
adepti e ha imposto la letteratura
latinoamericana nel mercato della cultura.
Era un uomo schietto e ironico che ho avuto la
fortuna di frequentare e con il quale ho
condiviso sogni ed emozioni.
E’ stato leale fino all’ultimo con la
rivoluzione cubana conscio, quando lo
sottolineava con ironia, che un sistema, quello
dell’economia neoliberale, non può insegnare
niente a nessuno, nemmeno ai comunisti, se
continua ad essere una fabbrica di repressione e
dolore per gli esseri umani.
In questo Gabo fu
esplicito pur non avendo mai sposato ideologie,
a differenza di Vargas Llosa che è stato, dopo
una gioventù comunista, sempre connivente con il
sistema capitalista e inguaribilmente geloso di
un amico di gioventù, García Márquez, che, ai
suoi occhi, aveva commesso il peccato di vincere
il Nobel 30 anni prima di lui.
Pensate che per questa scelta controcorrente di
non condividere la linea dei potenti, anche
oggi, in cui si dovrebbe solo ricordare con
commozione i suoi racconti, la sua prosa
innovativa, i suoi inarrivabili inizi di
capitolo, c’è stato chi, invece di ricordare il
miracolo di romanzi irripetibili come Cent’anni
di solitudine, L’autunno del patriarca, Cronaca
di una morte annunciata, L’amore ai tempi del
colera, Il generale nel suo labirinto e
tanti altri, ci ha tenuto a sottolineare
criticamente che era stato “inguaribilmente
castrista” e i capolavori che aveva scritto non
lo salvavano dal fuoco dell’inferno.
Per molti è ancora insopportabile il riscatto
dell’America Latina nato, pur fra tanti errori,
proprio con la rivoluzione cubana e prosperato
ultimamente con Lula, Chavez, Evo Morales,
Correa e grazie all’inattesa unità
latinoamericana.
Questo che segue è dunque il
Gabo che conosco io, che ci manca, ma non ci
abbandona e non ci abbandonerà.
La prima volta che García Márquez stuzzicò la
mia ambizione di giornalista che non concepiva
l’idea di lasciarsi sfuggire un colpo, uno
scoop, fu al Festival di Cannes nell’82. Era già
lo scrittore di Cent’anni di solitudine,
L’autunno del patriarca e di Cronaca di una
morte annunciata, ma il Nobel lo avrebbe vinto
mesi dopo.
Nella televisione che facevamo allora, occuparsi
di cultura per il pubblico della domenica
pomeriggio non era una presunzione o una scelta
fuori luogo.
Io, ogni domenica pomeriggio, facevo, con la
trasmissione Blitz, concorrenza alla Domenica In
di Pippo Baudo ma con Giovanni Minoli,
capostruttura di Rai Due che produceva il
programma, condividevamo l’idea che niente era
impossibile per la televisione servizio
pubblico, se eravamo consci del prestigio di cui
godeva allora la massima industria culturale del
paese.
Come sempre succede nelle maratone televisive in
diretta, quella domenica di maggio in trasferta
sulla Costa Azzurra eravamo in ritardo sulla
scaletta, tanto che Rita Salci Carano, una delle
più efficienti assistenti al programma, decise
di condurre Gabo a
fare un giro in motoscafo al largo della città
del Festival per evitare di dover rinunciare
alla sua partecipazione.
Poi, continuando il ritardo, registrai
l’intervista durante un intermezzo sportivo.
García Márquez fu, come sempre, diretto e
critico: “Il mondo latinoamericano- mi disse- è
un mondo socialmente conflittuale e il cinema
occidentale, che da tempo ha lasciato da parte
l’impegno politico, vede l’America latina in
modo convenzionale, secondo schemi europei”.
Fu disponibile, anche se confessò che non amava
essere una figura pubblica mentre, come
presidente della giuria del Festival, gli
toccava “fare lo streap-tease”, nel senso che
aveva trentacinque, quaranta richieste di
interviste da evadere. Ma l’amore per il cinema,
che aveva appreso in gioventù in Italia al
Centro Sperimentale come allievo di Cesare
Zavattini, e la grande amicizia con l’allora
ministro francese della cultura Jack Lang,
glielo imponevano.
Anni dopo mi avrebbe rivelato che al cinema non
sapeva proprio negarsi perché era stato il
neorealismo di Miracolo a Milano ad ispirare il
suo modo di far letteratura, di dar vita al
realismo magico o fantastico, che avrebbe reso
mitico il suo mondo, da Macondo alla Invincibile
e triste storia della candida Eréndira e
caratterizzato la sua scrittura e quella di
un’intera generazione.
C’eravamo conosciuti in Messico che è stato,
insieme a Cuba, la sua seconda patria, tutte le
volte che ha dovuto lasciare la sofferta
Colombia, sempre dilaniata dai cartelli dei
narcotrafficanti, dai metodi repressivi voluti
dagli Stati Uniti per combattere e perdere
sistematicamente la guerra al mercato della
cocaina. Una guerra sempre dichiarata dai
politici che si succedevano nel paese, ma mai
affrontata con un credibile piano di riscatto
sociale per le popolazioni.
D’altronde il Messico, che pure ha vissuto, e
sta vivendo a sua volta stagioni repressive, è
sempre stato un approdo sicuro per gli
intellettuali in fuga dalle dittature
latinoamericane e non solo.
La Rai mi aveva mandato a seguire un viaggio di
stato in Messico del Presidente Pertini che poi
era previsto proseguisse per la Colombia.
García Márquez, nuovamente minacciato nel suo
paese, si era rifugiato ancora una volta nella
rivoluzionaria terra di Zapata.
Lo cercavamo in molti. Il mio amico Pedro
Armendariz, grande attore e figlio di un mito
del cinema, aveva promesso di farmi chiamare e
una notte il futuro premio Nobel lo fece: “Soy
Gabo, me dijo Pedro que me estas buscando. Que
quieres?” (“Sono Gabo, mi ha detto Pedro che mi
stai cercando, cosa vuoi?”) mi disse con un tono
che non prometteva condiscendenze.
Spiegai che, come tanti giornalisti, lo volevo
intervistare. Invece di rifiutare subito, mi
propose: “Facciamo un affare: io ti do
l’intervista ma tu mi fai incontrare il tuo
Presidente, perché io gli possa spiegare tante
cose e lui non vada nella mia patria senza
conoscere a fondo la situazione”.
Per una richiesta così esplicita chiesi aiuto a
Enzo Biagi, decano del nostro giornalismo, anche
lui, in quell’occasione, inviato al seguito di
Pertini. Antonio Maccanico, segretario generale
del Quirinale a cui Enzo scelse di sottoporre il
problema, decise, per evitare complicazioni
diplomatiche, di incontrare personalmente,
insieme a noi García Márquez e poi di riferire a
Pertini. Il racconto di Gabo fu chiaro e
inquietante, tanto che Pertini decise di
aggiustare il tono dei discorsi preparati per la
visita in Colombia.
Biagi, che avrebbe avuto in esclusiva il
reportage, decise invece di aspettare che il
filmato che avevo montato con alcune
dichiarazioni dello scrittore colombiano
arrivasse, due giorni dopo, in aereo in Italia e
potesse essere mandato in onda in anteprima.
L’articolo di Biagi uscì l’indomani. Una
correttezza che, nel mondo dell’informazione,
non usa più.
L’amicizia con Gabo è cresciuta nel tempo e in
tanti incontri in Messico e a Cuba.
L’autore de L’amore ai tempi del colera o Il
generale nel suo labirinto ha nutrito, infatti,
sempre una tenerezza verso l’isola della
Rivoluzione che conobbe come giovane reporter
fin dal suo nascere politico e che pur non
risparmiandole critiche quando era il caso, ha
spesso protetto con la sua credibilità.
Gabo non ha fatto mai dichiarazioni ideologiche,
come spesso ha fatto per esempio Vargas Llosa,
comunista pentito, ma non si è tirato in dietro
quando si è trattato, per esempio, di dar corpo,
più di vent’anni fa alla nascita, a San Antonio
de Los Baňos, della Scuola di cinema più
importante del continente, un sogno realizzato
con l’argentino Fernando Birri e i cubani Titon
Gutierrez Alea e Julio Garcia Espinoza, suoi
compagni al Centro sperimentale di
cinematografia a Roma negli anni ’50.
García Márquez, negli anni ’90, quelli difficili
per l’economia cubana dopo la fine del comunismo
nell’Est europeo, è stato anche il sostegno
pratico della Scuola, dove ha tenuto corsi di
sceneggiatura e scrittura creativa.
Ma il premio Nobel non ha avuto dubbi ad esporsi
nemmeno quando, alla fine degli anni ’90, Fidel
Castro, preoccupato per la proliferazione degli
attentati terroristici organizzati in Florida e
messi in atto a Cuba, gli chiese, conoscendo
l’ammirazione che il presidente degli Stati
Uniti Clinton aveva per lui, di portare un
messaggio privato alla Casa Bianca. Il leader
cubano cercava di segnalare quanto fosse
pericoloso la condiscendenza del governo Usa nei
riguardi di molti organizzatori di attentati.
Quella volta, però, lo scrittore non riuscì a
vedere Clinton e dovette accontentarsi di
consegnare il messaggio allo staff presidenziale
della Casa Bianca.
Il racconto di questa avventura fu l’occasione
di una cronaca in prima persona dello stesso
Gabo, che conosce molto bene le contraddizioni
del mondo occidentale.
García Márquez amava l’asciuttezza e i toni
bassi. Ricordo con vera nostalgia la sera in cui
finii a cena a Trastevere con una formazione
irripetibile: Gabo, Sergio Leone, Robert De Niro
e Cassius Clay-Muhammad Alì. Pendevamo tutti
dalle parole del campione, ma chi apprezzava di
più il sussurro del suo racconto, ronco e a
mezza voce, era proprio Márquez . “Parece un
cura” (“Sembra un sacerdote”) commentava
ammirato alle mogli e alle compagne, relegate,
per una sera dagli uomini, nel tavolo accanto.
Quando accettò di scrivere il prologo al libro
tratto dalla mia intervista di sedici ore con
Fidel Castro, ci mise qualche mese per farlo e
alle mie telefonate, per le pressioni che
ricevevo da Leonardo Mondadori, una volta
sbottò: “Ma ti rendi conto che soppeseranno ogni
parola, ogni lettera, che scrivo su Fidel? E tu
mi metti fretta? Non c’è spiegazione a questa
intransigenza nei riguardi di Cuba, ma il mondo
va così… Vaffanculo!”.
Dopo tre giorni Mercedes, sua moglie, mi
annunciava l’invio del saggio che era caustico
ed esplicito, secondo la sua abitudine. Citerò,
per capirci, tre passaggi. Il primo afferma:
“Fidel non ama i discorsi scritti perché
eliminano il maggior stimolo della sua vita:
l’emozione del rischio” poi prosegue:
“Indipendentemente da dove, da come e con chi è,
Fidel è li per vincere. Non c’è un cattivo
perdente peggiore di lui” e infine “L’ho visto
spesso arrivare a casa mia portandosi dietro le
ultime briciole di un giorno smisurato”. Questo
è il suo stile.
Quando nel 1992 pubblicò I dodici racconti
raminghi, mi propose un altro baratto che io
accettai. Dovevo realizzargli, in cambio della
solita chiacchierata, un’intervista filmata con
Maradona per una tv colombiana nella quale
insegnava ad alcuni ragazzi a fare giornalismo
d’inchiesta. Quel giorno, alle mie domande,
però, rispondeva in modo quasi scocciato: “Ma
l’hai letto il libro?… Questo c’è nel libro, non
c’è bisogno di ripeterlo nell’intervista… Ma
l’hai letto?”. Chiaramente, giocava. Si
infervorò solamente ricordando che in un salotto
buono del nuovo cinema romano, quando si era
vantato: “Io sono stato allievo di Zavattini”,
aveva ricevuto per risposta un inquietante:
“Zavattini chi?”. Quell’intervista faticosa,
quando ascoltai il registratore, si rivelò
invece, una affascinante pagina per il Corriere
della Sera.
Io donna,
23 luglio 2011.
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