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Il riposo del Che
Pochi conoscono il nome dell’ufficiale
dell’esercito boliviano che l’8 ottobre del
1967, in un piccolo letto di fiume delle Ande
chiamato Quebrada del Yuro, catturò in
combattimento il Che, ferito a una gamba e con
il fucile distrutto.
A
nessuno interessarono i nomi dei soldati che lo
fecero prigioniero.
Non
è comune nemmeno ricordare chi fu il gendarme
ubriaco che eseguì l’orrendo crimine nella
piccola scuola di La Higuera, la mattina
seguente.
I
popoli li vogliono ignorare. Condannati nel
limbo dell’oblio, quei creatori di vittime
sopravvissuti si dibattono tra la frustrazione e
i pentimenti che detta loro coscienza di
omicidi, di governati con distanti telegrafi.
Senza dubbio l’opinione pubblica internazionale
suppone o almeno immagina giustamente le
motivazioni di coloro che diedero l’ordine
d’assassinare colui che in tante occasioni, sin
dai giorni della Sierra Maestra e non solo
perchè era un medico, aveva sempre protetto la
vita dei suoi prigionieri.
La
maggior parte della popolazione del mondo con un
minimo d’informazione politica sa chi fu il Che.
Alcuni pongono in dubbio la sua origine
argentina, forse perchè per tradizione si pensa
che gli argentini non si sentono molto
identificati con la sorte degli altri popoli
latino americani, almeno sino al momento in cui
reclamarono solidarietà per lo scoppio della
guerra nelle Malvine.
Oggi giunge la notizia che i resti mortali del
Che, definitivamente identificati, riposeranno
nel monumento che perpetua la sua memoria a
Santa Clara, nel centro di quella Cuba che ha
tanto amato.
Una
mattina di dicembre del 1958 la popolazione di
Santa Clara lo aspettava, ansiosa di conoscere
il leggendario guerrigliero che nella sua
campagna verso Las Villas aveva salvato tanti
villaggi dall’atrocità dell’esercito di Batista
e che con la sua abituale tenerezza aveva anche
liberato molti contadini dal dolore di molari
malati o da altri problemi propri d’una
popolazione che non aveva la minima assistenza
sanitaria.
Il
Che divenne un mito vivente per quella
popolazione delle montagne di Cuba.
Miracolosamente in quelle zone abbandonate
l’apparizione di un medico, che inoltre era
argentino, acquistò un altro valore sin dal
primo momento. Quel medico eroico dimostrò che
più che per curare i problemi individuali,
veniva a lottare per i loro diritti e a
rivendicare la loro dignità umana.
Non
ci furono barriere di nazionalità tra quei
contadini e i combattenti per accogliere chi,
reciprocamente, avrebbe posto l’amore come sola
condizione per affrontare la soldataglia del
dittatore, che bruciava le case, violava le
figlie, assassinava le famiglie. Per tutto
questo le lacrime sgorgarono e scivolarono sui
volti degli abitanti di quella base della
guerriglia, a El Hombrito, quando seppero che il
Che era stato ferito durante uno dei primi
combattimenti sulla Sierra Maestra.
Per
i cubani, come per tutti gli altri popoli latino
americani, dal tempo delle guerre
d’indipendenza, è stato frequente che altri
uomini, nati in altre città della Patria Grande
Bolivariana fossero poi disposti a combattere
per la liberazione di paesi diversi del grande
continente.
Nel
secolo scorso un dominicano, Maximo Gómez,
comandò le truppe di mambises contro l’esercito
spagnolo e molti latino americani combatterono
nelle campagne di Cuba.
Nulla di nuovo quindi se un argentino, assieme a
a un messicano, un dominicano e un italiano
erano a lato di Fidel nella spedizione del
Granma, per lottare contro la tiranna di
Batista, nel dicembre del 1956.
Inizialmente i compagni di lotta lo battezzarono
Che per l’uso frequente di questo intercalare
tra gli argentini.
Lui
accolse questo nomignolo come simbolo d’affetto
degli amici e del popolo del quale cominciò
rapidamente a sentirsi parte. Seppe anche tenere
le distanze necessarie per farsi chiamare
Comandante e Dottor Guevara, trattando con
personaggi che non considerava degni di
un’intimità che permetteva a quel popolo che
l’aveva accolto come figlio naturale e che poi
gli assegnò l’esclusiva condizione - con Maximo
Gómez - di cubano per diritto di nascita.
Nella sua lettera di saluto a Fidel, il Che
scrisse che si sarebbe sempre comportato come
tale, quando prese la decisione d’andare a
combattere nelle selve del Congo, per
l’autodeterminazione dei popoli africani. Egli
si considerava cubano e argentino, in generale
gli piaceva considerarsi latino americano e
soprattutto un uomo, nel senso più pieno della
parola. L’uomo, la cui più alta condizione è
essere rivoluzionario.
Il
Che sosteneva che questo è l’anello più alto per
la specie umana, che implica sentire come
propria una giustizia commessa contro qualsiasi
essere umano, in qualsiasi luogo del mondo e di
rallegrarsi quando, in qualsiasi luogo del mondo
si alza una bandiera di lotta per la dignità
dell’uomo.
(Dal
libro “Il ritorno” di Roberto Orihuela Aldama e
Aldo Isidrón del Valle / Editrice Capitan San
Luis - Traduzione Gioia Minuti)
Per
questi motivi, tra l’altro, il Che fu
scomunicato da coloro che avevano fatto del
marxisimo e specialmente di una certa
interpretazione marxista- leninista, una nuova
chiesa pseudo rivoluzionaria distante dal
genuino internazionalismo che la lotta contro il
capitalismo e per il socialismo ha sempre
richiesto.
La
visione internazionalista del Che sulla lotta
rivoluzionaria e sulla costruzione del
socialismo si articolava perfettamente con la
politica internazionale della Rivoluzione
Cubana, che si è mantenuta vigente anche dopo la
sua morte, nella continuità dell’appoggio in
maniere differenti ai vari progetti
rivoluzionari in America Latina, come in Africa
e nel sud-est asiatico.
Il
comportamento e il pensiero del Che
sintetizzano come paradigmi quelli di tutta una
generazione di cubani e combattenti di altre
parti del mondo che avevano consolidato un
coscienza rivoluzionaria internazionalista, che
avevano avuto precedenti importanti come la
guerra civile spagnola o la lotta contro il
fascismo, durante la seconda guerra mondiale.
L’atteggiamento internazionalista del Che non lo
si poteva considerare un fenomeno nuovo o
straordinario nella lotta rivoluzionaria del XXº
secolo; era l’atteggiamento conseguente e
autentico che richiedevano le note circostanze
rivoluzionarie dei convulsi anni ’60.
Trentanni dopo la scomparsa del Che il mondo è
cambiato molto, in un certo senso, ma nello
stesso tempo non è cambiato. La storia ha dato a
quanto pare la ragione al Che su quello che
sarebbe stato il destino di quei paesi che
saggiavano su cammini inadeguati la costruzione
del socialismo, non volendo riconoscere i
suggerimenti di Gramsci, che sosteneva che la
gestazione del socialismo necessitava prima di
tutto la creazione di una nuova cultura e la
concezione del Che quando si riferisce alla
necessità di un cambiamento ideologico
sostanziale per formare un essere umano diverso
e superiore a quello formato dalla società
borghese.
Attualmente il capitalismo è diventato più forte
e per questa ragione ha potuto operare meglio,
senza facciate di umanesimo, ha svelato la sua
essenza misantropica che concepisce l’uomo molto
più vicino al regno animale che a un altro
ordine sociale superiore, che l’uomo stesso
dovrà costruire per il proprio perfezionamento e
per la propria dignità.
La
Rivoluzione cubana che il Che contribuì a
portare alla vittoria s’è mantenuta nonostante
le previsioni infauste e attualmente si sta
spazzolando la polvere che le cadde addosso,
come a tutti i movimenti rivoluzionari di ogni
parte del mondo, quando cadde il muro di Berlino
e continua la sua marcia, nonostante il blocco
economico, commerciale e finanziario, errori
interni rettificati a tempo ed altri errori da
rimediare.
Nel
centro di quest’Isola irriducibile, a Santa
Clara che lo accolse come il suo liberatore,
riposeranno i resti mortali del Che,
dell’instancabile combattente, di questo simbolo
del meglio, dell’uomo del futuro che è e
continuerà ad essere il Che più che mai. La sua
morte gli ha ridato vita e lo ha reso immortale.
Alcuni lo visiteranno con la curiosità dei
turisti, ma molti di tanti paesi del mondo
troveranno in lui l’ispirazione per continuare
la propria lotta. E non mancheranno coloro che
si avvicineranno con fervore religioso a toccare
la cripta di San Ernesto de la Higuera. Il
popolo cubano continuerà a ricordarlo
studiandolo e facendolo rinascere in bambini e
giovani, come si fa anche con Martí, convinti
che questi Eroi non riposeranno mai.
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